Il New York Times racconta Ghali. «Può un rapper cambiare la mente degli italiani sui migranti?»

La testata americana parla con l’artista. «Se la voce degli altri non racconta la mia realtà, allora quella voce sarò io»

«Non saranno gli altri a togliermi la voce e a fermarmi dal dire ciò che penso. Ma se la voce degli altri non racconta la mia realtà, allora quella voce sarò io». Il rapper Ghali, in un’intervista sul New York Times, torna alle origini e ripercorre la sua carriera a ritroso, a ritrovare il senso che lo ha portato a essere quel che è oggi. Un rapper amatissimo in Italia, e che ha sfidato, più di una volta, il preconcetti nei suoi confronti. A partire dalle sue origini tunisine: un aspetto che mediaticamente – quando Ghali era bambino – veniva sempre associato a qualcosa di negativo sui media italiani: «Ero arrivato al punto di vergognarmi del mio nome». E però, grazie al rap, la questione è cambiata: «Amavo il mondo del rap italiano, ma non mi sono sentito rappresentato, non stavano parlando di me, ma sapevo che in Italia cominciavano a esistere i figli degli immigrati, ma nessuno avrebbe raccontato la loro storia». E così, decise che sarebbe stato lui a farsi portavoce di un’intera galassia di giovani immigrati che non avevano nulla da spartire con i connotati negativi che venivano enfatizzati dai media italiani. Una rappresentazione che generava in lui rabbia, ma nel tempo sono diventate spinta propulsiva: «Ero già penalizzato per essere arabo, dovevo piacere. Non volevo essere accettato solo dai “ragazzi che frequentano la strada”, volevo essere accettato dalle famiglie italiane, volevo essere riconosciuto come artista nazionale». E insieme a lui, da sempre, la mamma, citata anche nel testo di Flashback: «Mio padre non c’è, se n’è andato via, ha pensato a sé, non è colpa mia, mia madre con me nella guerrilla». E pian piano il successo, con fatica e tanta tenacia, è arrivato.


L’integrazione attraverso il linguaggio

Ma anche nel mezzo del successo, molte volte Ghali dice di non essere stato propriamente capito, anzi. Come nel caso di Cara Italia, che ha ricevuto plausi da più parti, perché da molti è stata considerata una lettera d’amore per il Paese, quando invece conteneva durissime critiche. E Ghali ricorda: «Alcuni dicevano: “Che bravo ragazzo”, “Che bravo straniero!”, “Straniero, ma è bravo”. Ma io non sono né bravo, né straniero». E come spiegato dal giornalista musicale Andrea Bertolucci, Ghali, con la sua musica, nel tempo «ha dato finalmente voce a una comunità che non ha mai avuto una rappresentanza politica, sociale, religiosa e nemmeno linguistica», grazie anche ai «riferimenti culturali comuni a molti giovani di seconda generazione, l’innovativa miscelazione – o addirittura “contaminazione” – della lingua italiana con l’arabo, il francese, lo spagnolo e l’inglese, creando un territorio di rivendicazione linguistica per coloro che , come lui, si sentiva escluso dai diritti di cittadinanza e di integrazione».


La questione migratoria e il diritto al sogno

Il Mar Mediterraneo ha sempre rappresentato un punto fermo, un elemento che separa le fortuna a seconda del lato da cui ci si trova. C’è dunque la questione dei fenomeni migratori, con la disperazione di chi è consapevole che il costo delle traversate potrebbe anche essere quello di rimetterci la vita propria e dei propri figli, parenti o amici. Traversate sempre accompagnate sì dalla disperazione, ma anche dalla speranza e dalla fede di riuscire ad arrivare salvi dall’altra parte del Mediterraneo. E dopo anni, «a soffocare le mie origini, tradizioni, credenze, per integrarmi in una società che non ti accetta per quello che sei», Ghali ora ha deciso di lasciarsi il tutto alle spalle e tornare nuovamente a esprimersi. E Ghali, con la sua musica non solo non è più «lo straniero», ma si è fatto “ponte” tra Tunisia e Italia: «Malgrado tutte le cattive notizie che arrivano, nonostante i pericoli, le persone continuano a voler lasciare la Tunisia e mi chiedono aiuto». Ma c’è un punto su cui Ghali non ci sta, quello di sentire continuamente che i migranti non stanno fuggendo dalla guerra e i nordafricani non hanno alcun motivo legittimo per andarsene dai loro paesi d’origine. E concludendo Ghali spiega: «In Tunisia impari fin da piccolo che non puoi sognare. Ti privano subito del diritto di sognare. Cosa fa una persona che qui si rassegna a non avere più sogni, che magari smette anche di sognare? Se in Italia si può sognare, allora per un giovane tunisino che vuole fare qualcosa nella vita se ne va, almeno per sognare, per avere il diritto di sognare».

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