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La crisi del 2011, le dimissioni di Berlusconi e l’avvento di Monti: come Napolitano è diventato «Re Giorgio»

22 Settembre 2023 - 21:32 Felice Florio
Morto all'età di 98 anni, il capo dello Stato è stato il primo, nella storia, a essere eletto per un secondo mandato al Quirinale

Il comunista che diventò re per salvare la Repubblica. Ci sono una serie di ossimori logici in questa frase, ma il peso politico della sua presidenza ne giustifica l’onomastica. Giorgio Napolitano dovette occuparsi, superati gli 80 anni, di traghettare l’Italia in una delle crisi più tragiche della storia repubblicana. Una crisi economica e politica. Per farlo, fu necessario atteggiarsi da sovrano quando la monarchia era già stata deposta da mezzo secolo. Per questo, «Re Giorgio»: lo soprannominò così il New York Times, il 2 dicembre 2011, dopo che il capo dello Stato agevolò la successione di Mario Monti a Silvio Berlusconi. Anche una copertina dell’Espresso gli affibbiò lo stesso titolo onorifico. «Re Giorgio – si leggeva -. Un governo debole, un premier in crisi, una politica viziata da liti e scandali. In questo vuoto, l’unico punto di riferimento è Napolitano. Ecco fino a dove può spingersi la sua moral suasion e cosa ha in mente per i prossimi anni». Forse il presidente più politico che l’Italia abbia avuto, per questo «Re Giorgio» divenne l’appellativo preferito dai suoi detrattori. Ma «Re Giorgio» è stato anche il presidente che si è assunto la responsabilità di forzare lo steccato costituzionale più di chiunque altro: chi ne giustificava le ragioni, invece, usava quel titolo onorifico per rimarcare l’autorevolezza e il decisionismo di Napolitano. Infine, «Re Giorgio», molto più semplicemente, per la somiglianza fisica con Umberto II di Savoia, l’ultimo re d’Italia.

Napolitano fu eletto al Colle il 10 maggio 2006, al quarto scrutinio, con 543 voti. È stato il primo esponente del Partito comunista a essere scelto come inquilino del Quirinale. Alle elezioni parlamentari di quell’anno, il centrosinistra aveva ottenuto una vittoria risicata, con un margine strettissimo di manovra al Senato: la differenza con la Camera era un effetto della legge elettorale Porcellum, definita dal suo stesso inventore, il leghista Roberto Calderoli, «una porcata». Era un Parlamento spaccato, diviso, instabile. E l’appuntamento con le elezioni del presidente della Repubblica rivelò l’incomunicabilità tra le fazioni. I veti incrociati dei gruppi parlamentari fecero bruciare i nomi di Giuliano Amato, Emma Bonino, Massimo D’Alema, Mario Monti, Lamberto Dini e Franco Marini. Alla fine, si optò per Napolitano, eletto da tutti i grandi elettori di centrosinistra e due franchi tiratori dell’Udc. Il terzo presidente proveniente dalla città di Napoli. Classe 1925, era cresciuto in una famiglia dell’alta borghesia campana. Si laureò in Giurisprudenza alla Federico II e poi, a 28 anni, divenne deputato. Dalla II alla XII legislatura, con l’eccezione della IV per impegni di segreteria del partito, sarà sempre eletto in parlamento. Tra i comunisti, scelse l’ala destra del partito, quella in cui spiccava un altro Giorgio, il romano Giorgio Amendola. Napolitano era il suo delfino. I militanti del partito, vedendoli sempre girare in coppia, li iniziarono a distinguere con due nomignoli: «Giorgio ‘o sicco», Napolitano, per la corporatura longilinea, e «Giorgio ‘o chiatto», Amendola.

Il tentativo di trasformare il Pci e «il momento più angoscioso»

Più passavano gli anni, più prendeva le distanze dalle idee filosovietiche, maggioritarie nel partito e rappresentate dallo stesso segretario, Enrico Berlinguer. Napolitano lavorava a un percorso per avvicinare la sinistra italiana a quella delle socialdemocrazie europee. Le università americane lo invitavano come conferenziere. Gli ci vollero tre anni per ottenere un visto, data la sua appartenenza politica al Partito comunista. Fu relatore alla Georgetown di Washington, ad Harvard, a Princeton, a Yale. A un certo punto, grazie al suo riformismo, Napolitano riuscì a conquistare la leadership della cosiddetta corrente migliorista del Pci. A fasi alterne, si allontanò dalla politica partitica. Ottenne un seggio da eurodeputato salvo poi tornare a Roma, nominato presidente della Camera: era il 1992, l’anno in cui scoppiò Tangentopoli e le stragi di mafia terrorizzavano il Paese. Nella sua autobiografia, Napolitano farà risalire a quell’anno «il momento umanamente e moralmente più angoscioso» della sua vita. Il deputato socialista Sergio Moroni, coinvolto nello scandalo di Mani Pulite, gli annunciò in una lettera l’intenzione di suicidarsi. «Oggi vengo coinvolto nel cosiddetto scandalo “tangenti”, accomunato nella definizione di “ladro” oggi così diffusa. Non lo accetto, nella serena coscienza di non aver mai personalmente approfittato di una lira. Ma quando la parola è flebile, non resta che il gesto. Mi auguro solo che questo possa contribuire a una riflessione più seria e più giusta, a scelte e decisioni di una democrazia matura che deve tutelarsi. Mi auguro soprattutto che possa servire a evitare che altri nelle mie stesse condizioni abbiano a patire le sofferenze morali che ho vissuto in queste settimane, a evitare processi sommari, in piazza o in televisione, che trasformano un’informazione di garanzia in una preventiva sentenza di condanna».

La (prima) elezione al Colle

Moroni si uccise sparandosi in bocca con un fucile, nella cantina del suo condominio. Napolitano fu chiamato da Romano Prodi, nel 1996, a ricoprire l’incarico che fu di Mario Scelba, anticomunista per eccellenza: diventò il titolare del Viminale. Il primo ministro dell’Interno comunista promosse, insieme a Livia Turco, la prima legge sull’immigrazione, quella che istituiva i centri di permanenza temporanea. Napolitano aveva intuito che i flussi migratori sarebbero diventati una delle grandi questioni del secolo successivo. Lasciò il Viminale per tornare all’europarlamento. Poi, Carlo Azeglio Ciampi, lo nominò insieme a Sergio Pininfarina senatore a vita. Era il 2005. L’anno precedente alla sua prima elezione al Quirinale. La sua prima. Già perché Napolitano è stato il primo presidente della Repubblica italiana a essere riconfermato per un secondo mandato. Bisogna conoscere ciò che stava avvenendo in Italia e nel mondo, in quegli anni, per comprendere le dinamiche che porteranno alla sua rielezione. Prodi ricevette l’incarico di formare il governo, ma non durerà nemmeno due anni a Palazzo Chigi. Napolitano provò ad affidare l’incarico a Franco Marini, almeno per riformare quella legge elettorale che causava ingovernabilità. Niente da fare: fu costretto a sciogliere le Camere. Alle elezioni del 2008 vinse il Popolo delle libertà di Berlusconi. Ma intanto, la crisi finanziaria partita dall’altro lato dell’oceano con Lehman Brothers, si propagò anche in Europa. I tassi di interesse volavano alle stelle. Lo spread cominciava a diventare parola di uso comune. Intanto, la credibilità del presidente del Consiglio Berlusconi crollò per gli scandali del suo stile di vita, a livello nazionale e internazionale.

La crisi economica e politica: nasce il governo Monti

La partecipazione del premier al diciottesimo compleanno di Noemi Letizia, a Casoria. Il divorzio con sua moglie, Veronica Lario. Infine, lo scandalo di Ruby rubacuori: Berlusconi telefonò direttamente all’ufficio di polizia milanese per farla rilasciare. «È la nipote di Mubarak», disse. Nulla di più falso. Ruby era una delle tante ragazze reclutate in giro per l’Italia per presenziare alle feste nelle ville del premier. L’austerità imposta dalla troika alla Grecia minacciava anche l’Italia. Mario Draghi e Jean-Claude Trichet inviarono una lettera alle autorità italiane per spingerle a riformare il sistema previdenziale, il fisco e il mercato del lavoro. La Commissione europea pretese una lettera d’intenti. Lo spread, intanto, superò quota 400. Berlusconi non aveva più credito con le cancellerie estere. Napolitano, allora, decise di intervenire con un insolito comunicato per sollecitare l’azione del governo nell’alveo delle indicazioni arrivate dall’Europa. Lo spread sfondava il tetto di 500. Berlusconi salì al Quirinale l’8 novembre per spiegare al presidente della Repubblica come mai il voto sul rendiconto dello Stato, alla Camera, fosse passato con soli 308 voti. Era la fine dell’esperienza di Berlusconi a Palazzo Chigi: all’indomani, Napolitano nominò Monti senatore a vita e, il 12 novembre, Berlusconi rassegnò le dimissioni. «Re Giorgio» aveva deciso che la cosa migliore per il Paese fosse consegnare a un governo di larghe intese, guidato da Monti, il compito di portare avanti le riforme sollecitate da Bruxelles e rassicurare i mercati internazionali.

La comparsa del Movimento 5 stelle e 101 franchi tiratori

I conti delle finanze pubbliche, effettivamente, furono messi a posto. Ma al prezzo di riforme durissime, come quella della ministra Elsa Fornero, nuove tasse e tagli di spesa. Le note e i comunicati del Colle continuavano a direzionare la politica italiana. E l’ennesima forzatura di Napolitano arrivò quando nominò due commissioni di 10 saggi per individuare temi e riforme da attuare per aiutare le forze politiche. Pier Luigi Bersani, incaricato dal presidente, non riuscì comunque a dare vita a un governo. Intanto Napolitano era certo che il suo compito volgesse al termine con la scadenza imminente del settennato. E fu allora che i partiti in Parlamento rivelarono, ancora una volta, la propria inconcludenza, accentuata ancora di più dalla comparsa sulla scena politica del Movimento 5 stelle, intransigente – all’epoca – sulle alleanze. Il Partito democratico, vincente ma non abbastanza alla tornata elettorale del 2013, bruciò il nome di Marini. Poi, al quarto scrutinio, gli ormai celebri 101 franchi tiratori tradirono Prodi, candidato ufficiale della direzione del Pd. Preso atto della disfatta, il padre fondatore dei Dem ritirò la propria disponibilità per il Colle. Lo stallo apparve definitivo, con i 5 stelle barricati sulla candidatura di Stefano Rodotà. E i nomi spendibili si erano esauriti.

Il secondo mandato da presidente della Repubblica

Nella mattinata del 20 aprile, Gianni Letta, Enrico Letta, Bersani, Monti e Vasco Errani, insieme a un gruppo di delegati regionali, si recò da Napolitano per convincerlo a dare la disponibilità per un reincarico. Accettò, a patto che la sua elezione fosse sostenuta da un’ampia maggioranza di grandi elettori. Ottenne 738 voti e iniziò il suo secondo mandato, all’età di 87 anni, che durò fino alle dimissioni del 2015. Beppe Grillo, fondatore dei 5 stelle, parlò di colpo di Stato: il Movimento e Sel furono le uniche formazioni a non votare per lui. Il presidente avrebbe affrontato anche la richiesta di messa in stato di accusa dei grillini, che gli imputavano l’esproprio al parlamento della funzione legislativa. Non fu un reinsediamento, quello di Napolitano, felice. Continuò ad assistere alle lotte intestine tra i partiti, nello specifico a quelle interne al centrosinistra: ci fu il siluramento del presidente del Consiglio Letta, liquidato dopo nemmeno un anno di governo da un Pd balcanizzato e sostituito da Matteo Renzi con quel famoso «Enrico stai sereno».

Il rimprovero ai partiti rimasto nella storia

Napolitano sembrava aver previsto tutto. E nel discorso di insediamento del suo secondo mandato, fece un rimprovero senza precedenti al Parlamento: «A questa prova non mi sono sottratto. Ma quanto è accaduto qui nei giorni scorsi ha rappresentato il punto di arrivo di una lunga serie di omissioni e di guasti, di chiusure e di irresponsabilità. Ne propongo una rapida sintesi. Negli ultimi anni, a esigenze fondate e domande pressanti di riforma delle istituzioni e di rinnovamento della politica e dei partiti – che si sono intrecciate con un’acuta crisi finanziaria, con una pesante recessione, con un crescente malessere sociale – non si sono date soluzioni soddisfacenti: hanno finito per prevalere contrapposizioni, lentezze, esitazioni circa le scelte da compiere, calcoli di convenienza, tatticismi e strumentalismi. Ecco che cosa ha condannato alla sterilità o ad esiti minimalistici i confronti tra le forze politiche e i dibattiti in parlamento». E qui arrivò la reprimenda più forte di Re Giorgio. «Imperdonabile resta la mancata riforma della legge elettorale del 2005.Molto si potrebbe aggiungere, ma mi fermo qui, perché su quei temi specifici ho speso tutti i possibili sforzi di persuasione, vanificati dalla sordità di forze politiche che pure mi hanno ora chiamato ad assumere un ulteriore carico di responsabilità per far uscire le istituzioni da uno stallo fatale. Ma ho il dovere di essere franco: se mi troverò di nuovo dinanzi a sordità come quelle contro cui ho cozzato nel passato, non esiterò a trarne le conseguenze dinanzi al Paese».

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