Il kibbutz di Nir Oz si trova ad appena 4 chilometri dal confine con Gaza. Sul suo sito viene descritto come uno «spettacolare giardino botanico con 900 varietà di alberi, piante e fiori, abbondanza di bellezza e colori che si sprigionano da ogni angolo». È qui che sabato 7 ottobre, al mattino, sono arrivati i terroristi di Hamas dopo aver superato senza intralci la recinzione che separa Gaza dalla comunità di 400 persone nel deserto del Negev nordoccidentale. L’insediamento agricolo è stato bruciato. Gli abitanti sono finiti sotto la mira dei jihadisti armati di mitra. Molti sono morti. Alcuni sono stati rapiti. Mentre c’è chi si è salvato barricandosi grazie a un aspirapolvere e a un mattarello. Le loro storie e le testimonianze raccontano l’orrore di Hamas.
I morti
L’omicidio di un’anziana è stato ripreso da un video, poi postato sui social network. La nipote Mor Bayden ha così scoperto la sua fine su Facebook: «Mia nonna, che ha vissuto per tutta la vita nel kibbutz Nir Oz, è stata uccisa ieri in un brutale omicidio da un terrorista nella sua casa. Un terrorista è entrato a casa sua, l’ha uccisa, le ha preso il telefono, ha filmato l’orrore e lo ha pubblicato sulla sua bacheca Fb. È così che lo abbiamo scoperto». Yoav Shimoni ha raccontato alla Cnn che era andato a trovare la nonna nel kibbutz due settimane prima per celebrare Rosh Hashanah. «Presumo che la sua casa sia stata il primo punto di contatto per uno dei terroristi che si sono infiltrati. Nonna era una persona super felice, sicura di sé, ottimista, sempre di buon umore, pensava sempre alla sua famiglia». Mor ha pubblicato su Facebook una foto che la ritrae con l’anziana: «Stamattina non ho ricevuto il suo messaggio: ‘mia cara maestra, ti sei alzata?’, come ogni giorno. Come eri tenace, non un minuto dopo le sette. Il mio cuore è a pezzi».
I rapiti
Noam Peri, 40 anni, figlia di Haim Peri, disperso da sabato scorso, ha invece fatto un appello alle organizzazioni non governative della Striscia. Perché il padre, ha detto, era un attivista e un pacifista. Noam ha parlato ieri sera in un briefing tenuto dal ministero degli Esteri israeliano con i media internazionali in collegamento via Zoom. «I miei genitori vivevano nel kibbutz da 60 anni, sono stati tra i fondatori del kibbutz Nir Oz che si trova proprio vicino al confine con Gaza», ha raccontato. «Sabato è stato grazie a mio padre che mia madre è riuscita a nascondersi durante il blitz dei terroristi di Hamas. È rimasta in silenzio nascosta per 4 ore mentre loro trucidavano bambini e adulti nelle loro stanze e nei loro letti ma di mio padre abbiamo perso le tracce». E ancora: «Mio padre ha quasi 80 anni, è un padre meraviglioso di 5 figli. È stato abile ad allontanare i terroristi in modo che mia madre potesse nascondersi. Lei si è salvata ma di lui non abbiamo più notizie da sabato, né se sia vivo, né se sia morto».
I salvati
Infine c’è Irit Lahav. È nata e cresciuta proprio nel kibbutz di Nir Oz. È lei che è sopravvissuta con sua figlia all’assedio durato 12 ore. «Dopo l’allarme ci siamo rifugiate nella stanza blindata come se si trattasse di un normale bombardamento, a cui ormai siamo abituate da anni. Ma ben presto i vicini ci hanno avvertite che non si trattava di un normale lancio di missili. Abbiamo capito che c’era un assalto di terroristi al kibbutz e bisognava barricarsi in casa per non finire massacrate», dice oggi al Quotidiano Nazionale. «Ci siamo rese conto che la stanza blindata non è attrezzata per proteggerci da un attacco terroristico, perché non ha nemmeno una serratura. Non devono mai essere chiuse a chiave, per motivi di sicurezza». A quel punto hanno chiesto nella chat del kibbutz se qualcuno sapesse come bloccarla: «Mio fratello mi ha mandato una foto di come aveva bloccato la sua porta con due manici di scopa incrociati legati saldamente alla maniglia. Ho pensato subito: ’Non ho scope. Come potrei riprodurre lo stesso effetto?’ Ma poi mi sono ricordata di avere un mattarello: sono uscita di corsa dalla stanza e l’ho preso, insieme al mio aspirapolvere Dyson, che ha un tubo abbastanza lungo per bloccare la porta».
L’aspirapolvere e il mattarello
Irit Lahav dice a Elena Comelli che a quel punto «li abbiamo legati insieme con un cavo molto robusto e abbiamo infilato il tubo dietro alla maniglia in modo da bloccare la porta. Sapevamo che saremmo morte se quelle belve fossero riuscite a irrompere nella stanza. Sentivamo come si avvicinavano e avevamo solo paura». Lahav ha potuto ascoltare quello che succedeva intorno a lei: «Tutti i miei vicini chiedevano aiuto. Dicevano che la loro casa stava bruciando, che non potevano più respirare, che i terroristi stavano buttando giù la porta. Li ho sentiti arrivare nella casa vicino alla nostra, dove hanno ucciso tutta la famiglia dei miei vicini, due genitori e due bambine piccole. Nel nostro kibbutz vivevano 400 persone e di queste 150 sono state uccise o rapite».
«Dieci minuti di colpi, urla e spari»
I terroristi sono entrati in casa sua diverse volte: «La prima volta verso le 10 e mezza, quattro ore dopo il primo allarme. Hanno sparato e li abbiamo sentiti demolire tutto. Poi sono arrivati alla porta delle nostra stanza e hanno cercato di aprirla. L’hanno sbattuta e scossa con tutte le loro forze e noi ci siamo nascoste sotto il tavolo». Lei era sicura che aspirapolvere e mattarello non avrebbero resistito. Invece hanno retto. In tutto è durato «dieci minuti di colpi, urla e sparatorie. Poi hanno rinunciato e se ne sono andati. Dopo un’ora sono tornati e hanno cercato di nuovo di sfondare la porta senza riuscirci. Infine hanno saccheggiato tutto quello che trovavano». Nel kibbutz il massacro è durato tutta la giornata. Alle 18 è arrivato l’esercito israeliano e le ha liberate.
Foto copertina da: Haaretz
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