Deep sea mining, cos’è la controversa corsa ai fondali oceanici a cui anche l’Italia vorrebbe partecipare

Gli interessi di Saipem e Fincantieri per estrarre minerali dal profondo degli oceani e il fronte europeo che chiede una moratoria. Il governo italiano non chiude ma spinge sulla precauzione

La transizione ecologica ha bisogno innanzitutto di nuove materie prime. E la corsa per accaparrarsele rischia di spostarsi nelle profondità più oscure e inesplorate del nostro pianeta: i fondali oceanici. È lì che diversi Paesi e aziende di tutto il mondo vorrebbero dare vita a una nuova enorme industria: il Deep sea mining, ovvero l’estrazione di metalli e altri materiali dal fondale degli oceani. Una pratica che ha scatenato un’ondata di sdegno e critiche non solo da parte delle principali associazioni ambientaliste, ma anche della comunità scientifica. Se non altro, per una questione di principio: perché andare a cercare i cosiddetti critical raw materials – tutti quei materiali ritenuti indispensabili per la transizione energetica – in uno dei pochissimi habitat incontaminati rimasti sulla Terra? Di recente, questa domanda è finita anche sul tavolo dell’Autorità Internazionale dei Fondali Marini (AIFM), l’agenzia dell’Onu incaricata proprio di regolamentare le attività sui fondali marini e oceanici. All’ultima assemblea che si è svolta a luglio a Kingston, in Giamaica, è andato in scena uno scontro tra chi vorrebbe dare finalmente il via libera alle esplorazioni commerciali – aprendo di fatto allo sfruttamento delle risorse depositate sui fondali – e chi si sbraccia per impedire la nascita di una nuova (ennesima) industria inquinante.


La valutazione di Pichetto Fratin

Finora l’Italia non ha espresso una posizione ufficiale su questo tema, anche se i segnali sembrano puntare decisamente in una direzione. «Una delle tante sfide che ci attendono è la corsa al mondo subacqueo e alle risorse geologiche dei fondali – ha detto la premier Giorgia Meloni qualche settimana fa intervenendo al Forum “Risorsa Mare” di Trieste –. Un dominio nuovo nel quale l’Italia intende giocare un ruolo di primo piano». Ora è il ministro dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin a delineare meglio la posizione del governo italiano. «L’Italia – fa sapere il ministero a Open – è convinta della necessità di applicare puntualmente il “principio di precauzione” relativamente allo sfruttamento commerciale delle risorse minerarie presenti nei fondali marini (cd. deep sea mining) per prevenire ed evitare possibili gravi ed irreparabili danni ambientali alla biodiversità, agli ecosistemi e possibili inquinamenti marini». Insomma, di estrazioni minerarie in acque profonde se ne può parlare. A patto però, precisa il Mase, di raggiungere «un’adeguata conoscenza dell’impatto ambientale di tali attività» e adottare «un solido regime regolatorio».


La corsa agli abissi

L’interesse dell’industria mineraria verso i fondali marini risale agli anni Sessanta. È in quel periodo che alcuni articoli scientifici parlano per la prima volta della possibilità di avviare estrazioni minerarie in acque profonde, dove secondo gli esperti si trovano scorte quasi illimitate di «noduli polimetallici» che contengono grosse quantità di cobalto, nichel e altri materiali. Nel 1994 entra in funzione l’ISA, l’organo delle Nazioni Unite fondato proprio per vigilare su tutte le attività connesse ai minerali presenti nei fondali marini internazionali. Da allora, sono state rilasciate una trentina di licenze esplorative, ma l’ISA non ha mai acconsentito allo sfruttamento commerciale. Almeno per ora. Negli ultimi anni, infatti, alcuni Paesi e aziende minerarie – prima su tutte, la canadese The Metals Company – hanno intensificato il pressing per ottenere il via libera alle attività di estrazione. Un’ipotesi che le associazioni ambientaliste vogliono evitare ad ogni costo. «Ci troviamo in un momento storico cruciale: possiamo fermare un’industria estrattiva prima che questa inizi. Sarebbe come andare indietro nel tempo per impedire la nascita dell’industria petrolifera», commenta Francesca Vespasiani di Greenpeace International.

I rischi ambientali

A riaccendere l’interesse verso il potenziale dei fondali marini è il processo innescato dalla transizione ecologica, che porterà la domanda di alcuni materiali – i cosiddetti critical raw materials – a crescere esponenzialmente. C’è solo un problema: i fondali oceanici sono tra i pochissimi habitat incontaminati presenti sulla Terra e non abbiamo idea di quali conseguenze avrebbe il deep sea mining sull’ecosistema marino. «I rischi ambientali sono enormi – spiega Vespasiani –. Ma anche di fronte alla non conoscenza delle possibili conseguenze, ci sono alcuni governi pronti a dare il via libera. Moltissime specie marine di cui non sappiamo nulla ma che siamo già pronti a sacrificare». La perdita di biodiversità è sicuramente la principale conseguenza negativa delle estrazioni minerarie in acque profonde. Ma non è l’unica. Tra gli altri rischi citati da associazioni ambientaliste ed esperti figurano anche l’inquinamento acustico, l’inquinamento luminoso e il danno sociale per le popolazioni dell’Oceano Pacifico – è lì che l’industria ha diretto la propria attenzione – la cui sussistenza dipende dalla pesca. «Nelle aree dove sono stati fatti i primi test si sono registrate altissime penurie di pesci – aggiunge l’attivista di Greenpeace –. Per non parlare del fatto che i fondali oceanici sono ambienti fragili: i loro ritmi di riproduzione sono molto lenti».

EPA/Martin Divisek | Un enorme polpo gonfiabile installato da Greenpeace davanti al ministero dell’Industria a Praga, in Repubblica Ceca, per chiedere una moratoria sul deep sea mining (1 giugno 2023)

Gli schieramenti internazionali

L’ultima assemblea dell’Aifm, che si è svolta a luglio in Giamaica, è stata preceduta da numerose proteste dei movimenti ambientalisti. Ciò che in molti si aspettavano era l’adozione di un mining code, una regolamentazione che rappresenterebbe di fatto il primo passo verso la successiva concessione delle prime licenze commerciali. Alla fine, però, le cose sono andate diversamente. «La mancata approvazione del mining code è stata un’importante vittoria – commenta Vespasiani –. Il numero di Stati che sta prendendo posizione cresce giorno dopo giorno». Ciò che chiedono le associazioni ambientaliste è una moratoria del deep sea mining, che sul lungo periodo potrebbe trasformarsi in un divieto vero e proprio delle attività minerarie in acque profonde. Una richiesta su cui si sono espressi in modo favorevole diversi Paesi, fra cui: Francia, Spagna, Germania, Canada, Cile, Nuova Zelanda, Svezia, Finlandia, Portogallo. Anche la Commissione europea e il Parlamento europeo hanno votato a favore di una moratoria. A sedere sul lato opposto del tavolo, e a spingere invece per il via libera alle estrazioni minerarie, è soprattutto la Norvegia. Con Russia, Cina e Stati Uniti che non hanno preso una posizione ufficiale ma – precisa Vespasiani – «si sono espressi più volte a favore del deep sea mining».

La posizione dell’Italia

E l’Italia? All’interno dell’Aifm il nostro Paese gioca un ruolo di primo piano e fa parte – insieme a Cina, Russia e Giappone – del gruppo dei «grandi consumatori». Finora il governo italiano non aveva mai preso una posizione ufficiale, ma le parole della premier Meloni al Forum di Trieste sembravano lasciar trasparire che anche l’Italia avesse tutta l’intenzione di prenotare un biglietto nella corsa verso gli abissi. Ora, rispondendo a una richiesta di commento di Open, è il ministero dell’Ambiente a chiarire la posizione dell’esecutivo. «Nelle sedi internazionali – fa sapere il Mase – l’Italia sostiene la necessità di condizionare l’avvio delle attività di sfruttamento minerario al raggiungimento di un’adeguata conoscenza dell’impatto ambientale di tali attività e all’adozione di un solido regime regolatorio che la disciplini».

Il ruolo di Saipem e Fincantieri

Nessun sostegno alla moratoria, dunque, che secondo il ministero «non aiuterebbe l’obiettivo di tutelare e proteggere l’ambiente marino, rischiando invece di minare l’efficacia stessa dello strumento internazionale competente a disciplinare queste attività». Piuttosto, l’Italia insiste affinché nel mining code vengano inserite «elevate garanzie di tutela dell’ambiente marino» e di trasparenza per le aziende che operano. E a proposito di aziende, ci sono già due nomi italiani che hanno messo gli occhi sulla nuova industria dei fondali oceanici. Si tratta di Saipem e Fincantieri, che hanno firmato un memorandum of understanding per analizzare i potenziali sviluppi del mercato. Eppure, incalza Vespasiani, la posizione del governo italiano rischia di essere estremamente contraddittoria. «L’Italia è tra i Paesi che hanno firmato il trattato dell’Onu per la protezione degli oceani – ricorda l’attivista –. Non si può pretendere di proteggere gli oceani e allo stesso tempo considerare il deep sea mining. Sono due cose che non possono stare insieme».

Credits foto di copertina: Massachusetts Institute of Technology (MIT)

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