Il terrore torna in Europa? Parla Olivier Roy: «Hamas lontana dal Jihad globale. Sta attirando Israele in una trappola» – L’intervista

Qual è il rapporto tra Hamas e il mondo arabo? Quanto conta la questione palestinese per i giovani musulmani di Europa? Le risposte del politologo francese, tra i massimi esperti di jihadismo

Tutte le volte che il fragile patto tra valori occidentali e Islam viene messo in discussione dagli orrori della cronaca, il pensiero di Olivier Roy – politologo francese e massimo esperto di jihadismo – torna a essere un faro sulla difficile convivenza tra culture nell’Europa del XXI secolo. Autore di numerosi testi sulla radicalizzazione islamica, fautore della teoria secondo cui il dio dei “nuovi terroristi” non è Allah ma il nichilismo occidentale che ha trovato casa nel fondamentalismo islamico, Roy risponde via Zoom da Firenze, dove insegna all’Istituto universitario europeo di Firenze.


Professore, dopo la strage dell’ospedale a Gaza City sono iniziate le proteste in tutto il Medio Oriente contro Israele e gli Stati Uniti. Come le commenta?


«Non credo che siano legate al singolo episodio. Sarebbe accaduto comunque: magari domani o tra qualche giorno. La vera domanda da farsi è perché Hamas ha scatenato questa guerra deliberatamente? Ci sono due dimensioni nel loro attacco a Israele: una è militare – la distruzione delle postazioni dei soldati, del sistema elettrico, delle torri di controllo. L’altra è il massacro dei civili. Se si fossero limitati alla prima, sarebbero in una migliore posizione per negoziare. Ma sappiamo che hanno deciso di uccidere civili: ci sono documenti che lo dimostrano e lo stesso gruppo non l’ha mai negato. Hanno dunque creato una situazione irreversibile in cui Israele non ha altra scelta che eliminarli. Hamas sta attirando Israele verso una trappola, e la trappola sono i civili palestinesi. Il massacro che ne deriverà è l’unico modo che ha per resistere. Nella lotta contro Israele i miliziani si aspettano il sostegno del mondo arabo, ma è una posizione suicida perché nessuno li aiuterà apertamente. Neanche l’Iran – che vuole distruggere Israele – invierebbe soldati a lottare al fianco di Hamas in Palestina».

Qual è il ruolo della religione in questo attacco?

«La guerra tra Israele e Palestina è iniziata nel 1948 come una guerra nazionalista e per quasi 30 anni entrambi le parti coinvolte nel conflitto erano secolari. Uno dei gruppi più attivi per la liberazione della Palestina, il Fronte democratico per la liberazione della Palestina, aveva due leader cristiani: Nayef Hawatmeh e Georges Habache. Veniamo a oggi: Hamas è un movimento nazionalista islamico. A differenza dell’Olp (Organizzazione per la Liberazione della Palestina) vuole uno stato organizzato secondo le leggi islamiche ma la strategia è nazionalista. Usano la religione solo per motivare i miliziani che devono combattere e morire, ma non c’è una matrice religiosa».

Hamas non è l’unico gruppo islamista coinvolto in questa guerra, c’è anche il Jihad islamico. Come sono collegate?

«Non sono sicuro che supportino Hamas, di sicuro stanno supportando la popolazione civile a Gaza e la guerra contro Israele. Hamas sta cercando in tutti i modi di fomentare una rivolta nel mondo palestinese, a cominciare dalla Cisgiordania, ma non ci riesce. In parte perché c’è l’Autorità Palestinese, che pur governando senza alcuna autorità riconosciuta, si oppone ad Hamas. In parte perché i palestinesi non vogliono lasciare la loro terra ai “coloni”. Ci saranno rivolte nel nome della Palestina ma non prevedo una nuova Intifada».

Dopo il massacro di Hamas, ci sono stati due attacchi terroristici in Europa commessi nel nome di Allah. Quanto è alto il rischio di un ritorno del terrore islamista nel nostro continente?

«I terroristi hanno dichiarato di essere legati a Isis, non ad Hamas. E lo stesso Isis – a differenza di Al Qaeda – non ha espresso supporto ad Hamas per l’attacco contro Israele perché lo considera un movimento nazionalista che mina le basi del jihadismo globale.I due episodi avvenuti in Francia e a Bruxelles sono in linea di continuità con l’ultima ondata di terrorismo islamico in Europa. Mi riferisco a quello che comincia nel 2016. Fino ad allora – e a partire dal 1996 – i terroristi appartenevano prevalentemente alla seconda generazione di immigrati arabi in Europa più qualche convertito all’Islam. Erano ben organizzati, coordinati da Al Qaeda prima e dall’Isis poi. Gli attacchi erano pianificati: avevano armi all’avanguardia, esplosivi. Dal 2016 si assiste a un cambiamento radicale: gli attentati si fanno con coltelli, taglierini, armi di fortuna. I terroristi sono persone che agiscono di fatto da sole o con l’aiuto di qualche parente o amico. Non c’è logistica, né alcun collegamento reale con Isis o Al Qaeda, seppure gli attentatori dicono di agire nel loro nome. Ci sono meno vittime rispetto al passato perché sono meno organizzati e meno efficienti. A commettere questi attacchi non sono più arabi di seconda generazione con uno scopo, ma persone ai margini della società. I ceceni – protagonisti recenti di una radicalizzazione e di una massiccia emigrazione – sono molto ben rappresentati in questa nuova categoria. Per il resto si tratta di persone in continuo movimento: arrivano da tutto il mondo – Pakistan, Afghanistan – e si spostano in Tunisia, Italia, Francia, Belgio. Vale per l’ultimo attacco di Bruxelles ma anche per gli attentatori di Nizza (strage del 2016 ndr). Un altro aspetto importante da considerare è che non sono più giovani o giovanissimi ma persone di tutte le età, molto spesso con problemi di salute mentale. Con Gaza riesploderà questa onda di attacchi terroristici casuali? Tutti se lo aspettano ed è molto probabile che succederà. Di sicuro alcuni diranno di farlo nel nome della Palestina, ma non credo che sarà quella la caratteristica più importante della nuova ondata di proteste che abbiamo di fronte».

Quale sarà?

«Il supporto per la Palestina è politicamente orientato e ad animarlo ci sono principalmente intellettuali, giornalisti, sportivi. Non è la rivolta dei margini ma una protesta mainstream della classe media e alta. Eppure sono trattati come terroristi, e questo è un bel problema. Una democrazia non dovrebbe reprimere chi vuole spingere il dibattito su Gaza in direzioni più politiche e umanitarie. Vale in Europa come nei Paesi Arabi, dove in queste ore vediamo molte persone che manifestano nelle strade. In passato non abbiamo mai visto proteste di supporto per Al Qaeda o Isis: i loro supporter sono sempre stati ai margini. Oggi la causa palestinese ha il supporto della classe media. Hamas non ha intenzione di compiere  attacchi terroristici al di fuori del confine israeliano-palestinesi: non l’hai mai fatto e onestamente non credo comincerà adesso. In questo è meno terrorista degli storici movimenti secolari pro-Palestina. Il massacro dei civili israeliani è un atto di terrorismo perché stato deliberato contro i civili ma di certo Hamas non è un’organizzazione terroristica globale». 

Sta dicendo che Hamas non è interessata a costruire una rete globale di estremisti islamici contro l’Occidente?

«Hamas è stato alleato dei Fratelli Musulmani che non sono mai stati coinvolti in attentati terroristici in Occidente. Non appartengono alla jihad globale ma a quella nazionale. A differenza dell’Iran, non contestano l’esistenza dello Stato di Israele ma vogliono tornare alla divisione dei confini del 1967 . Certo, qualcuno potrebbe sfruttare la situazione per fomentare una lotta globale all’Occidente ma la questione per Hamas è politica e di territorio».

Qual è l’impatto di questa guerra sulle potenze regionali?

«Non credo che la crisi congelerà del tutto il processo di normalizzazione sancito dagli Accordi di Abramo. Gli Stati arabi odiano Hamas: non rispetta le linee rosse, mette i cittadini in situazioni molto difficili e mina le relazioni con partner importanti dentro e fuori la regione. Il legame del gruppo con i Fratelli Musulmani è un problema per molti. La situazione è molto confusa: il presidente turco Erdogan vuole conservare un rapporto con Israele. Il Marocco sta facendo un grosso lavoro per riavvicinare i marocchini ebrei di Israele. Il congelamento degli accordi di Abramo non è nell’interesse dei Paesi Arabi, ma solo dell’Iran. Dopo di che molto dipenderà dalla durata di questa guerra».

Qualche previsione?

«Se si risolverà nel giro di qualche settimana, credo che entro massimo due anni si riuscirà a ripristinare un equilibrio globale. Ma se il conflitto si protrarrà per mesi, la situazione rischia di andare totalmente fuori controllo e sarà sempre più difficile trovare una soluzione politica. Come ho detto, Israele non ha altra scelta se non distruggere Hamas ma non vuole un allargamento del conflitto. Lo dimostra anche l’atteggiamento con il Qatar: i capi politici di Hamas sono a Doha ma il governo di Netanyahu non ha mai minacciato Tamim bin Hamad Al Thani per questo. I qatarini hanno dato supporto politico – mai militare – ad Hamas con il beneplacito di Netanyahu».

La questione palestinese quanto conta per i giovani arabi musulmani in giro per l’Occidente?

«Sono meno filo-palestinesi dei loro padri. Negli anni Ottanta e Novanta la bandiera palestinese e la kefiah spuntavano a in tutte le proteste. Oggi sono pressoché assenti. L’importanza della questione palestinese si nota di più tra i musulmani della classe media e gli intellettuali in Europa e Usa. Basti pensare a dove sono le proteste: ad Harvard, non nelle strade. E questo accade anche in Francia».

A che punto è l’integrazione degli islamici in Europa? Quali sono – se ci sono – le colpe dell’occidente nella radicalizzazione di alcuni?

«È la deculturazione (il processo che porta alla perdita degli elementi culturali tipici di un popolo o di un gruppo ndr) che può portare alla radicalizzazione. Ne sono prova le nuove generazioni, i cui nonni sono arrivati in Europa negli anni Sessanta. Loro vogliono essere accettati come musulmani, ma non come arabi. Eppure continuano a comportarsi come arabi: stranieri con una specifica cultura, musica, look. Questo è un tema per tutta l’Europa ma in particolare per Francia, che non si è battuta solo contro l’Islam ma contro la religione in generale: il velo, come il crocifisso. E proprio questa politica di perdita di identità specifiche legate alla religione ha finito con il rivoltarsi contro».

Lei conosce bene l’Italia. Cosa pensa della situazione nel nostro Paese?

«Questo in Italia è il momento delle seconde generazioni. Non vedo segni di radicalizzazione islamica legati a loro: quando ci sono riguardano sempre imam, leader anziani. Probabilmente perché in Italia c’è anche un background sociale più vario di quello francese; molti musulmani arrivati qui appartengono già alla classe media. Con i giovani il problema riguardi più il desiderio represso di riscatto, la rabbia e la criminalità, ma non la religione. O almeno non ancora».

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