Tra diritto alla difesa e tutela dei diritti umani: inizia il difficile viaggio di Biden in Israele

«Ancora una volta il Medio Oriente ha dimostrato alla leadership americana che non può essere ignorato», spiega a Open Emma Sky, consigliera politica dell’esercito Usa in Iraq

Per conoscere gli obiettivi strategici del viaggio in Israele di Joe Biden è sufficiente ascoltare con attenzione i discorsi che il presidente americano ha pronunciato da quando – lo scorso 7 ottobre – i terroristi di Hamas hanno sferrato il loro crudele attacco al popolo israeliano. Biden – che arriva oggi a Tel Aviv per fare poi tappa ad Amman dove dovrebbe incontrare il re Abdullah II e il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi (il presidente dell’Autorità palestinese Abu Mazen ha cancellato l’incontro in seguito alla strage dell’ospedale di Gaza City) – vuole innanzitutto dimostrare di «essere al fianco di Israele» che ha «tutto il diritto di difendersi e di reagire», come ha detto nel primo discorso alla nazione dopo l’attacco. Ma il leader Usa cercherà anche di convincere il presidente israeliano Netanyahu che «l’occupazione di Gaza è un grosso errore», come ha sottolineato nell’intervista andata in onda domenica scorsa su CBS News.


L’impegno militare nel Golfo

«La risposta del presidente Biden viene dall’istinto. È un leader che si affida al suo istinto, e questo è emerso chiaramente nei suoi commenti emotivi e nel suo impegno personale sulla crisi», spiega a Open Emma Sky, consigliera politica del comandante delle operazioni militari Usa in Iraq David Petraeus durante la surge (l’incremento di truppe sul terreno) del gennaio 2007. La studiosa, direttrice dell’ International Leadership Center all’Università di Yale, che sulla disfatta americana in Iraq ha scritto il libro The Unravelling: High Hopes and Missed Opportunities in Iraq, ha molto chiara la posta in gioco: «Gli Stati Uniti sembrano impegnati a prevenire un conflitto regionale più ampio, segnalando all’Iran e ai suoi emissari – in particolare Hezbollah –  che interverranno a favore di Israele se dovessero aprire un nuovo fronte – e presumibilmente dissuadendo Israele dal prendere l’iniziativa offensiva sul fronte settentrionale, come molti nell’establishment israeliano sono invece ansiosi di fare, vedendo in questo momento l’opportunità di riguadagnare deterrenza nei confronti di una minaccia strategica molto più grande di Hamas». A questo servono le due portaerei americane – contenenti una dozzina di barche e circa 12mila militari  – inviate nel Mediterraneo orientale per svolgere, come ha scritto il Pentagono, «azioni di deterrenza contro azioni ostili a Israele». Un segnale che rappresenta l’inizio di una probabile nuova corsa militare nella regione: il Dipartimento della Difesa ha infatti annunciato che sta valutando di distribuire 2 mila truppe e di inviare aerei e jet nel Golfo Persico, rafforzando una presenza che negli anni si era sempre più ridotta a favore di altre priorità statunitensi – dall’Indo-pacifico fino al supporto all’Ucraina in funzione anti-Russia.


Il ritorno della strategia americana in Medio Oriente

Come il suo predecessore Barack Obama, anche il presidente Biden ha molti dubbi sull’alleanza con “Bibi” Netanyahu, l’uomo che ha trascinato Israele sempre più a destra sfidando i valori democratici e del diritto, a capo di un governo composto da uomini che lo stesso Biden ha definito «tra i più estremi mai visti». Eppure il presidente sa che Israele va difeso indipendentemente dai suoi capitani: «Gli Stati Uniti – continua Sky  – guardano le spalle a Israele. In questo momento significa sostenere una leadership israeliana divisa e in difficoltà mentre cerca di riflettere sulla propria strategia». La partita di Biden in Medio Oriente si gioca tutta su un delicato equilibrio tra il diritto alla difesa di Israele e il dovere democratico di distinguere tra i terroristi di Hamas e il popolo palestinese vittima inevitabile della risposta israeliana e “ostaggio” di un conflitto che si trascina da decenni. «Biden deve guardare Netanyahu negli occhi e assicurarsi che capisca che è in gioco la reputazione globale dell’America e che un’occupazione di Gaza trascinerà entrambi i Paesi in un conflitto prolungato», ha dichiarato all’agenzia Reuters Kirsten Fontenrose, ex funzionaria alla Sicurezza nazionale e ora collaboratrice del Consiglio Atlantico. In un’America che ancora conta i suoi soldati morti in Iraq e Afghanistan, la maggioranza dei cittadini – soprattutto conservatori – non vuole un Paese capofila di azioni militari e conflitti in giro per il mondo. Eppure l’amministrazione Biden non sembra essere preoccupata da un eventuale doppio impegno in Ucraina e Medio Oriente. Nell’intervista con Cbs il presidente ha chiarito la sua posizione: «Siamo gli Stati Uniti d’America, per l’amor di Dio, possiamo occuparci di entrambi e mantenere la nostra difesa internazionale».

Il fronte interno: opinione pubblica e sinistra dem

A preoccupare il presidente sul fronte interno è la spaccatura esigua ma crescente nel suo partito tra chi esprime vicinanza a Israele senza se e senza ma, e chi invece vuole un’America che si occupi in maniera attiva della violazione dei diritti umani in Palestina. Oltre i campus universitari che ribollono di istanze anti-israeliane e le accuse da parte degli avversari repubblicani sui 6 miliardi pagati all’Iran per la liberazione di 5 ostaggi statunitensi (denaro bloccato in seguito all’attacco di Hamas), il presidente ottantenne alla ricerca di un secondo mandato deve confrontarsi anche con l’ala più progressista dei democratici – tra cui spiccano Alexandria Ocasio Cortez, Rashida Taibl e Ilhan Omar – che vuole un impegno evidente del presidente per la causa palestinese. D’altronde – pur avendo riaperto il canale con l’Autorità Palestinese interrotto da Donald Trump – proprio su questo tema l’amministrazione Biden si è mostrata molto tiepida. A differenza dei suoi predecessori democratici, Biden non ha spinto Israele verso  un accordo di pace con la Palestina, continuando la politica avviata da Trump di normalizzazione delle relazioni tra Israele e i Paesi arabi sunniti in funzione anti-Iraniana: i cosiddetti Accordi di Abramo.

«Gli sforzi dell’amministrazione per evitare un’escalation più ampia – continua Sky – sono motivati dal desiderio di stabilità naturalmente, ma anche dall’impegno a preservare la logica dell’integrazione regionale e le prospettive di normalizzazione israelo-saudita. Questa è un’amministrazione ampiamente concentrata sulla competizione tra grandi potenze: sulla Cina e sul conflitto in Ucraina innanzitutto. Ma ancora una volta, il Medio Oriente ha dimostrato alla leadership americana che non può essere ignorato». La studiosa non ha dubbi sul fatto che «i palestinesi si sono sentiti messi da parte dagli Accordi di Abramo», un dimensione ribadita anche dal politologo Ian Bremmer a Open qualche giorno fa. «Alcuni regimi arabi – ha continuato Sky- hanno optato per l’accesso all’economia high-tech di Israele e per un coordinamento esplicito della difesa rispetto alla minaccia iraniana, a scapito della solidarietà espressa nei confronti dei palestinesi. Gli Stati degli Accordi di Abramo potrebbero sostenere che le relazioni diplomatiche con Israele forniscono loro una leva sulla questione palestinese, poiché Israele ora ha più da perdere». Al momento – mentre l’Arabia Saudita congela l’accordo con Israele – né gli Emirati, né l’Egitto sembrano però giocare un ruolo effettivo di mediazione. «Saranno messe alla prova in questo conflitto – conclude Sky – in particolare per quanto riguarda il ruolo che gli Stati del Golfo svolgeranno nella ricostruzione di Gaza e nella governance di Gaza del “giorno dopo” per sviluppare un piano che consentirà agli aiuti umanitari provenienti dai Paesi donatori e dalle organizzazioni multilaterali di raggiungere i civili a Gaza il prima possibile, inclusa la possibilità di creare aree per mantenere i civili lontani dal pericolo». 

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