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Il politologo Bremmer: «Netanyahu non ha protetto i suoi cittadini. Anche i palestinesi ostaggi di Hamas» – L’intervista

14 Ottobre 2023 - 03:57 Serena Danna
«Non c'è alcuna giustificazione per i mostruosi attacchi terroristici di un’organizzazione che dovrebbe essere distrutta. Ma so che quando nessuno si preoccupa di 2,3 milioni di palestinesi che vivono in condizioni disperate, la situazione non finirà bene», spiega a Open il politologo americano

«Non c’è alcuna giustificazione per i mostruosi attacchi terroristici di Hamas, un’organizzazione che dovrebbe essere distrutta. Ma so che quando 2,3 milioni di palestinesi vivono in condizioni disperate e nessuno – né in Israele, né in altri Paesi del Medio Oriente – si preoccupa di loro, la situazione non finirà bene. E questo è un pezzo importante della storia». A parlare via Zoom, dalla sua casa di New York, è il politologo Ian Bremmer, presidente dell’Eurasia Group, uno degli analisti più lucidi dei disordini del presente. Mentre la comunità internazionale assiste a nuove testimonianze del massacro operato il 7 ottobre dai terroristi di Hamas al confine con Gaza, in molti si interrogano sulle conseguenze degli attacchi che hanno riportato all’attenzione del mondo un territorio spesso dimenticato.

La risposta di Israele alle atrocità dei crimini di Hamas è cominciata. Il governo di Netanyahu ha ordinato l’evacuazione di oltre un milione di persone dal nord di Gaza in 24 ore: un obiettivo impossibile da raggiungere. Lei cosa pensa? 

«Certamente un annuncio che dice a più di 1 milione di palestinesi presenti a Gaza City che devono evacuare in 24 ore non è realistico, se l’intento è proteggere questa popolazione. Le popolazioni civili devono essere protette, una responsabilità che non riguarda solo gli israeliani: è anche un problema di Hamas. Se Hamas opera direttamente nelle aree civili e si rifiuta di permettere ai palestinesi che vivono a Gaza di evacuare, sta tenendo queste persone in ostaggio. Dunque non sequestrano solo 150 israeliani e cittadini internazionali, ma anche milioni di civili palestinesi. Quindi, innanzitutto, la responsabilità è di Hamas. Detto questo, credo sia stato un errore per gli israeliani annunciare l’assedio di 2,3 milioni di palestinesi di Gaza. La maggior parte di queste persone non sono terroristi, ma civili. Il 50% di loro sono bambini: innocenti e impotenti che vengono usati in questa guerra. Saranno loro a subire i danni peggiori, come è sempre successo ai palestinesi di Gaza, che hanno sopportato il danno principale di decenni di questo conflitto. Se si guarda ai dati, il 50% degli abitanti di Gaza soffre la fame. Il 90% non ha accesso all’acqua potabile. E questo accadeva prima della guerra: vivevano come animali e nessuno si prendeva cura di loro. Sono profondamente solidale con il desiderio israeliano di distruggere i terroristi di Hamas, credo che abbiano il diritto di farlo, ma hanno anche l’obbligo di fare tutto il possibile per proteggere i civili. E nei primi giorni di questa guerra il governo israeliano non è riuscito a farlo». 

Che giudizio ha di Netanyahu e del suo governo? 

«Credo che non abbia fatto tutto ciò che era in suo potere per proteggere i civili israeliani. Negli ultimi sei mesi ha distolto lo sguardo dalla sicurezza israeliana, dalla sicurezza dei confini israeliani, dall’intelligence. Si è concentrato sui suoi casi di corruzione, sulla sua riforma giudiziaria, sui suoi alleati di destra, sull’interesse per l’espansione degli insediamenti, sulla Cisgiordania. E così ha distolto lo sguardo dalla palla. Israele ha storicamente la migliore sicurezza delle frontiere al mondo, la migliore intelligence al mondo. Il fatto che un’organizzazione come Hamas possa arrivare e uccidere 1300 civili israeliani è anche colpa di Netanyahu. È responsabile di non aver protetto i civili israeliani. E il popolo israeliano lo biasima per questo».

Che ruolo ha l’America in questo conflitto?

«L’America vuole innanzitutto stabilità. Di certo non possiamo considerarla un mediatore imparziale: Israele è il suo più importante alleato nella regione. Ma la verità è che nessuno si aspetta che gli americani siano imparziali in questo conflitto…Vuole limitare il più possibile il numero di civili uccisi e di abusi dei diritti umani: una scelta in parte valoriale, in parte dovuta al timore che il conflitto possa espandersi a spirale e minare la posizione di Israele, e non solo, nella regione. Voglio però essere chiaro su un punto: gli Stati Uniti stanno cercando di ridurre il loro livello di responsabilità diretta nell’impegno in Medio Oriente da oltre un decennio. Un percorso iniziato dall’amministrazione Obama, che ha spostato l’interesse americano verso l’Asia, un’area molto più importante sia dal punto di vista economico, sia strategico, e dove risiede il principale concorrente; ovvero la Cina. Tuttavia, da quando la Russia ha invaso l’Ucraina, gli Usa hanno riportato l’attenzione in Europa, una scelta che ha creato anche molti problemi al presidente Biden. Non vogliono essere coinvolti in dispiegamento di risorse anche in Medio Oriente». 

Putin ha detto che quello che accade in Israele è la dimostrazione del fallimento delle politiche americane in Medio Oriente. Il presidente russo – che sembra dimenticare di aver avuto un ruolo importante nella regione, a cominciare dalla Siria – riuscirà a trarre vantaggio da questa situazione? In generale crede che il blocco anti-occidentale sia più forte dopo l’attacco a Israele? 

«L’ultima settimana probabilmente è stata la migliore per Putin da quando ha invaso l’Ucraina. Non tanto perché sta migliorando la sua posizione in Medio Oriente, quanto perché solo una settimana fa l’Ucraina era il problema principale a Washington. Oggi, se tutto va bene, è il terzo problema…Ecco perché Zelensky sta facendo un viaggio veloce in Israele: vuole assicurarsi di essere ancora rilevante. Ma se mi chiede se la Russia avrà un ruolo maggiore in Medio Oriente, non credo. È un Paese la cui economia sta cadendo a pezzi. Ora stanno mettendo in atto controlli sui capitali, hanno bisogno di armi dall’Iran e dalla Corea del Nord. Non vedo i russi svolgere un ruolo significativo sul campo. E penso che la coalizione anti-occidentale in Medio Oriente sia ancora relativamente debole. Israele non si trova di fronte a una minaccia esistenziale, come è accaduto nel 1973 quando gli Stati arabi erano schierati contro di esso. Oggi gli Stati arabi non sono schierati contro Israele, lo sono i terroristi radicali di Hamas. È possibile che questo porterà a un’ondata di sostegno in tutto il Medio Oriente, che ci saranno manifestazioni e violenze, ma le tendenze geopolitiche non cambieranno all’improvviso. L’Arabia Saudita ha ancora un forte interesse a una normalizzazione che non è realizzabile nel breve termine. E io credo che questi interessi rimarranno».

Rivolgo a lei l’affermazione di Putin: la politica americana in Medio Oriente è stato un fallimento? 

«Il più grande fallimento della politica estera statunitense nella regione è stata la guerra in Iraq: una decisione sbagliata, che non solo è costata molte vite e milioni di dollari agli Usa, ma ha anche destabilizzato profondamente la regione e portato a massicce violazioni dei diritti umani. Nessuno è mai riuscito a dare una svolta nel processo di pace israelo-palestinese – tanti ci hanno provato e nessuno ci è riuscito – ma è vero che negli ultimi anni, al di fuori della questione palestinese, è stata creata una maggiore stabilità. La svolta nelle relazioni tra Israele, Bahrein e Marocco (i tre Paesi arabi che hanno riconosciuto Israele e hanno intrapreso rapporti diplomatici in seguito agli Accordi di Abramo ndr), così come l’avvio di una normalizzazione con l’Arabia Saudita li considererei successi della politica estera statunitense, e non verranno improvvisamente annullati da questa guerra. Anzi, in un certo senso, sono proprio questi obiettivi raggiunti che possono impedire alla regione di veder esplodere in una più ampia guerra per procura».

La questione palestinese è la grande dimenticata della “normalizzazione” sancita dagli Accordi di Abramo?

«La responsabilità è condivisa dagli israeliani e dagli altri regimi della regione. Negli ultimi anni ho passato molto tempo a parlare con persone di Medio Oriente, e quasi nessuno si è preoccupato di chiedermi dei palestinesi, anche se Netanyahu stava espandendo gli insediamenti illegali in Cisgiordania. Israele è stato più che felice di continuare ad andare avanti nel processo di “normalizzazione” senza preoccuparsi della posizione dei palestinesi. Non solo Israele, anche gli Stati del Golfo: i sauditi erano pronti a fare un accordo nonostante i palestinesi si trovassero nella peggiore posizione degli ultimi decenni. Volevano una vetrina, assicurarsi che ci fosse un po’ di denaro per i palestinesi, ma non chiedevano una soluzione a due Stati. Non chiedevano che i palestinesi di Gaza avessero reali opportunità di sostentamento per loro stessi e per i loro figli. Ecco perché non si può dare la colpa solo a Israele. Ci sono stati molti partecipanti che si sono resi complici di ciò che stiamo vedendo». 

Cosa pensa delle proteste in corso in alcune università americane – ma anche italiane – in cui si stenta a condannare le stragi di Hamas?

«Il livello di sostegno bipartisan a Israele negli Stati Uniti è straordinariamente forte. L’Ucraina è diventata una questione molto più di parte, Israele no. È vero che ci sono piccole élite urbane, progressiste, che sostengono i palestinesi. Ma questo non riflette in alcun modo la posizione del popolo americano. Capisco che sia alla moda scrivere titoli sulla base di uno, due o cinque radicali con la svastica, ma questo fa vendere i giornali e danneggia la democrazia. I social media, dal canto loro, promuovono attivamente l’odio e algoritmicamente la disinformazione. Promuovono l’estremismo. Elon Musk, individualmente, sta promuovendo personalmente questi account. Tutto questo dovrebbe essere illegale. Il livello di odio e disinformazione che si incontra ogni giorno online, non si incontrerebbe mai nella propria famiglia, nella propria comunità, nella propria scuola. E invece vediamo regolarmente e intenzionalmente a sostegno di un modello di business su Twitter».

Chi sono i protagonisti di questo confitto? Quelli che possono avere un ruolo attivo per limitarne o ampliarne il raggio?

«Ovviamente quasi tutto dipende dagli israeliani e dai palestinesi. Hamas sta combattendo contro i civili israeliani. Ma finora non abbiamo visto, ad esempio, azioni in Cisgiordania. E speriamo ancora che Hezbollah e il Libano rimangano ai margini. Più la violenza peggiora, maggiore è la possibilità che si radicalizzino segmenti ampi delle popolazioni che circondano Israele. Certamente se gli iraniani decidono di contribuire a promuovere il coinvolgimento di Hezbollah, allora il potenziale per l’espansione della guerra all’Iran diventerà reale. Penso però che sia una probabilità molto bassa al momento. Il Qatar è il più vicino ad Hamas. Si potrebbe vedere la Turchia giocare un ruolo, ma siamo molto lontani da questo».

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