La mamma di Alberto e Alice Scagni racconta il pestaggio del figlio in carcere: «Lo hanno picchiato per tre ore»

Il resoconto della donna in un post pubblicato su Facebook e condiviso dalla senatrice Ilaria Cucchi. «I ragazzi nelle celle vorrebbero parlare, ma vengono rapidamente istruiti a non esporsi»

«Da quando è finito in carcere, Alberto è stato massacrato più di una volta: a Marassi, prima, a Sanremo, pochi giorni fa. È stato picchiato talmente forte che ora ha bisogno delle macchine per sopravvivere». Antonella Zarri, madre di Alberto e Alice Scagni, ha visitato nei giorni scorsi il carcere di Valle Armea, dove mercoledì 22 novembre Alberto, suo figlio e uomo che uccise la sorella l’anno scorso a Genova Quinto è finito in coma per colpa del pestaggio da parte di due detenuti. Scagni si trova tuttora in gravi condizioni all’ospedale Borea di Sanremo e sul caso è stata aperta un’inchiesta per tentato omicidio. Zarri, assistita dal legale Mirko Bettoli, è potuta entra nella cella dove è avvenuto il pestaggio, durante un sopralluogo.  Il suo resoconto è stato pubblicato in un post pubblicato su Facebook e condiviso dalla senatrice Ilaria Cucchi.


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Un post condiviso da Ilaria Cucchi (@ilariacucchiofficial)


«Lo hanno pestato per tre ore»

«Arrivo in carcere alle 10 – scrive la donna in un lungo post sui social -. Mi fanno entrare alle 11, per chiedere il permesso. Poi, alle 11.25, sono finalmente dentro, vengo accompagnata alla cella 6. Quella in cui è stato massacrato di botte Alberto, mio figlio. Davanti alla cella 6, c’è la cella 9. Ci sono tre persone detenute, appena rivolgo lo sguardo, si avvicinano». «Mi dicono: ‘Ci dispiace per quello che è successo, abbiamo chiamato noi, abbiamo cercato di fermarli. Chiedo quanto tempo è durato, mi rispondono “tre ore”. L’agente in borghese che mi sta accompagnando mi aggredisce verbalmente: “Lei non può parlare coi detenuti”, mi dice. Rispondo che parlare con i detenuti è mio dovere, che sono la madre del ragazzo massacrato lì dentro».

«La cella era un macello, come dopo una sommossa»

«Ormai ho capito che l’agente è incaricato di tenermi d’occhio. Ma quando ha qualche momento di distrazione, continuo a sbirciare. I ragazzi nelle celle vorrebbero parlare, ma vengono rapidamente istruiti a non esporsi. Allora parlano gli occhi, tradiscono disperazione, senso di impotenza, sono gli occhi del carcere. La cella è un macello. In un angolo, è rimasta una scarpa di Alberto. Le macchie di sangue sono ovunque. Tavoli e brande, scaravoltati. È la scena di una sommossa, in 15 metri quadrati». «Un detenuto anziano – racconta la donna – lui è nella cella 7, mi ripete nuovamente che gli dispiace. ‘Qui è così, signora, l’avevo detto’. Il vicecomandante della polizia penitenziaria lo zittisce. La voce non si ferma: ‘Ho scritto in procura, per dire che sarebbe successo, le cose qui non vanno bene’. Il vicecomandante mi allontana, per parlare da solo con il signore. Ne approfitto, torno fuori dalla cella 9, chiedo: “Volevano ammazzarlo?”. Un ragazzo si mette una mano sul petto, sottovoce mi dice: ‘Non lo so, non lo so davvero’. Ha l’aria ancora spaventata, quella di chi ha visto».

Le non risposte della direttrice

La mamma di Alberto Scagni ha poi avuto un confronto con la direttrice dell’istituto Cristina Marré, che nei giorni scorsi non ha mai voluto rispondere alla stampa. «Compare un’altra agente – prosegue Zarri -. Si qualifica come comandante della polizia penitenziaria. Il suo tono è allegro: ‘Io ero in ferie, l’unica settimana dell’anno pensi, sono cose proprio antipatiche queste’. Non aggiunge altro, ci accompagna dalla direttrice e quest’ultima ci riceve in sala riunioni. Resta muta, insipida e melliflua, non una parola di rammarico. C’è chi lo chiede per me: ‘La signora voleva sapere cosa è successo’. ‘C’è un’indagine in corso’, risponde. Sbotto, in modo educato, che la verità si può dire sempre. Sono le mie ultime parole, esco poco dopo senza nessuna risposta».

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