Green Boots, Sleeping Beauty e quei 200 corpi sul sentiero per la vetta dell’Everest

Non solo memento mori, ma vere e proprie pietre miliari che segnano il percorso e avvertono gli scalatori: la montagna non perdona i passi falsi

La scorsa primavera ha segnato il record di permessi per tentare la scalata alla regina della catena himalayana. Quattrocentossessantatre licenze per raggiungere la cima dell’Everest, un numero mai visto prima che superava il precedente di 409 lasciapassare del 2021. Nel 2019 l’alto numero di grimpeur aveva provocato un vero e proprio ingorgo sulle creste della montagna, ritardi nella salita e nella discesa. E 9 morti. Sfidare gli Ottomila significa mettere la propria vita a rischio, lo sanno tutti gli scalatori che rispettano la montagna e che non affrontano l’arrampicata con leggerezza. La vetta dell’Everest, così come delle 13 sorelle sparse nel mondo che superano gli ottomila metri di altezza sul livello del mare, non dovrebbe essere intesa come una meta turistica. Eppure la facilità con cui vengono rilasciati i permessi, soprattutto dopo le chiusure negli anni del lockdown per il Covid, fanno pensare diversamente. Soprattutto a chi incautamente affronta la scalata senza l’adeguata preparazione. Perché l’Everest non perdona i passi falsi, non fa sconti agli scalatori più esperti. Per raggiungere il punto più alto, quegli 8.848,86 metri che fanno sognare e ossessionano migliaia di arrampicatori, gli ostacoli sono innumerevoli e spietati. E a ricordare a ognuno di coloro che tenta di raggiungere la cima – e tornare indietro sano e salvo – che l’attenzione non deve mai scendere sotto il livello massimo, e spesso non basta, circa 200 corpi punteggiano il paesaggio. Sherpa, professionisti, avventurieri. Negli anni centinaia di persone sono morte salendo o scendendo dalla vetta. I colori vivaci del loro abbigliamento sono un memento mori per i futuri scalatori. E alcuni di essi segnano il sentiero sulla vetta da così tanto tempo da essere diventi parte integrante del paesaggio


Green Boots

Per circa 20 anni gli scarponi verdi di uno scalatore hanno riposato ai margini del percorso verso la vetta del Monte Everest. Per tutti è diventato «Green Boots», gli scarponi verdi che emergevano dalla neve e dalle rocce di una grotta calcarea a 8.500 metri dalla vetta. Sebbene il corpo non sia mai stato identificato ufficialmente, si ritiene comunemente sia appartenuto allo scalatore indiano Tsewang Paljor, morto durante il percorso nel 1996. Paljor fu uno degli 8 scalatori morti nel disastro del maggio di quell’anno. Apparteneva alla spedizione della polizia di frontiera Indo-tibetana, sul crinale settentrionale. Come lui, anche altre missioni furono sorprese fatalmente dalla tempesta di ghiaccio e neve che li bloccò durante la discesa: oltre a Paljor, morirono anche gli altri due scalatori della sua spedizione. Il corpo ribattezzato Green Boots dagli scalatori divenne ben presto un punto fermo nelle salite verso l’Everest, e fu rimosso solo nel 2014.


Sleeping Beauty

Di cadaveri abbandonati sull’Himalaya ne sono stati contati circa 200. Tra i più famosi, c’è quello chiamato The Sleeping Beauty, la bella addormentata. Si tratta del corpo di Francys Arsentiev, la prima statunitense a raggiungere la cima del monte Everest senza l’ausilio di bombole d’ossigeno. Ma quel tentativo che la consacra nella storia del professionismo di montagna, le è stato anche fatale: Arsentiev morì durante la discesa. L’episodio avvenne nel 1998. Come ricostruito successivamente, alcuni scalatori di nazionalità uzbeka le prestarono soccorso trovandola in difficoltà. Ma dovettero poi lasciarla perché stavano finendo il loro ossigeno. Quando furono in grado di tornare da lei era ormai troppo tardi. Stessa sorte capitata al marito, che il giorno prima dal campo base era tornato indietro con ossigeno e medicine alla sua ricerca. Il corpo di Arsentiev fu infine rimosso, con una cerimonia solenne, nel 2007. Ma sono tante le storie sui tentativi falliti degli Ottomila, e di montagne più basse ma ugualmente pericolosissime: il New York Times ha realizzato alcune inchieste puntuali e dettagliate per onorare la loro memoria (il recentissimo reportage sul disastro dell’Aconcagua, la tragedia sul monte Everest). E ricordare cosa significhi intraprendere un’avventura di questo genere.

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