Gli stipendi italiani restano al palo: +1% in 30 anni. L’Inapp: «La contrattazione ha fallito, s’introduca il salario minimo»

Il rapporto dell’Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche fotografa il calo dei salari reali e la crescita dei profitti: «Così il sistema non regge»

I salari italiani sono al palo. L’ennesima conferma del trend che ben conoscono i lavoratori arriva dal rapporto annuale dell’Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche (Inapp), che registra come tra il 1991 e il 2022 i salari reali in Italia sono cresciuti appena dell’1%, a fronte del 32,5% in media nell’area Ocse. Secondo la ricerca, presentata questa mattina alla Camera, il dato è legato anche alla bassa produttività del lavoro, cresciuta però più delle retribuzioni nel periodo. Risultato: la continua caduta della quota dei salari sul Pil a fronte della crescita del peso dei profitti (40% contro 60% rispettivamente). Una tendenza allarmate, sottolinea l’Inapp: se le cose proseguono così ci sono «forti dubbi sulla tenuta di tale modello nel lungo periodo». Secondo il presidente dell’Inapp Sebastiano Fadda la questione salariale è stata perfino aggravata nell’ultimo triennio dall’incidere dell’inflazione: i salari reali nel nostro Paese sono addirittura calati rispetto al 2020, a fronte di incrementi sostanziali negli altri Paesi. Che fare dunque? «Potrebbe essere utile in questo contesto l’introduzione del salario minimo legale», sostiene Fadda. Anche considerato che le tanto celebrate norme sulla contrattazione collettiva, addotte spesso a ragione dell’opposizione al salario minimo, «non sono state capaci di garantire tra il 1991 e il 2022 la crescita dei salari reali». E d’altra parte, «non esistono ragioni né sul piano analitico né sul piano dell’evidenza empirica per escludere strumenti basati sull’imposizione di una soglia minima invalicabile».


Popolazione invecchiata e lavoratori mancanti

Secondo il rapporto Inapp c’è poi un’altra minaccia che grava sul sistema produttivo italiano: «Il cosiddetto labour shortage, ossia la carenza di lavoratori, che si manifesta con la difficoltà dei datori di lavoro a coprire i posti vacanti». Anche perché l’andamento demografico implica che la forza lavoro in Italia invecchia rapidamente: se nel 2002 ogni 1.000 persone che avevano un’età compresa tra 19 e 39 anni ce n’erano poco più di 900 aventi 40-64 anni, oggi questi ultimo sono oltre 1.400. E i lavoratori più anziani sono quelli che operano nella pubblica amministrazione, dove si trovano ben 3,9 lavoratori anziani ogni lavoratore giovane. Ultimo lascito degli anni della pandemia è poi quello dell’aumento delle dimissioni da impieghi sgraditi: nel 2021 sono state oltre mezzo milioni le risoluzioni di rapporti da parte di lavoratori, che nel 60% dei casi si sono poi ricollocate altrove entro un mese. Altri 3,3 milioni di lavoratori, pari al 14,6% degli occupati, sostengono invece di aver pensato di dimettersi ma di essere alla ricerca di altre fonti di reddito per affrontare questa scelta.


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