Delitto di via Poma, la difesa di Mario Vanacore: «Simonetta Cesaroni l’ho vista per la prima volta solo da morta»

Il figlio del portiere: ce l’hanno con la mia famiglia, abbiamo denunciato

Mario Vanacore, figlio di Pietrino, risponde alle accuse del dossier dei carabinieri sull’omicidio di Simonetta Cesaroni in via Poma a Roma. E lo fa andando all’attacco: «Ce l’hanno con la mia famiglia. Dei personaggi. Magari qualcuno che abbiamo anche denunciato». Vanacore fa sapere di aver presentato con il suo avvocato Claudio Strata un esposto per calunnia e diffamazione: «Ero stanco di essere indicato come il responsabile del delitto». Poi spiega: «La mia posizione era stata esclusa tempo fa. A Roma sono arrivato proprio quel giorno lì, il 7 agosto 1990. Con mia moglie e mia figlia, che all’epoca aveva due anni, abbiamo viaggiato di notte perché non avevamo l’aria condizionata. Siamo arrivati alle 9 del mattino. E sono andato in giro con mio padre. Era molto orgoglioso del suo lavoro da portiere. Rispettato e amato da tutti i condomini».


L’accusa e la difesa

Vanacore parla oggi in un’intervista a La Stampa. Nel colloquio con Irene Famà dice che il padre gli aveva fatto vedere un carrettino verniciato di marrone, che secondo la polizia aveva delle macchie di sangue. Ma in realtà era la pittura. Un carrettino che il padre utilizzava per innaffiare le piante. Poi riepiloga il suo alibi: «Con mio padre e la mia matrigna abbiamo pranzato e siamo andati a dormire. Ci siamo alzati verso le 17. Siamo andati in farmacia, dal tabaccaio, in altri luoghi». Il padre ha anche effettuato una terapia per il dolore alla schiena: «Poi abbiamo cenato e lui è andato a dormire dal signor Valle, che era anziano». Poi, ricorda, sono arrivati alcuni personaggi che hanno chiesto di vedere se la ragazza era in ufficio. «La mia matrigna aveva un po’ di titubanza, non si fidava perché non conosceva nessuno», aggiunge per rispondere all’accusa di aver sviato le indagini.


Il corpo di Simonetta

Il figlio del portiere di via Poma dice che era lì quando hanno trovato il corpo di Simonetta Cesaroni: «Abbiamo bloccato sua sorella perché non lo vedesse. Io e il suo fidanzato siamo entrati in stanza, ci siamo chiusi dentro e abbiamo chiamato i soccorsi». Ricorda che c’era una luce debole e di non aver visto tanto sangue: «Solo un alone attorno ai capelli. Quell’odore lo ricorderò per tutta la vita». Soprattutto, dice di non averla mai conosciuta: «Mai vista prima». Quindi, è assurdo che lo accusino di aver frequentato l’ufficio per telefonare in interurbana gratuitamente. «È assurdo. Così come è assurdo che vogliano chiudere questa storia così: è stato Mario Vanacore ma non abbiamo prove». Non risponde alla domanda su chi sia l’assassino, ma dice che ha creduto all’epoca al coinvolgimento dei servizi segreti. Ricorda anche che suo padre si è tolto la vita il 9 marzo 2010.

Il biglietto

Lasciando un biglietto: “20 anni di sospetti e sofferenze ti portano al suicidio”: «Quelle parole hanno un suono amaro. Si è sempre sentito in colpa per avermi coinvolto in questo caso». Dice di non aver mai pregato sulla tomba di Cesaroni: «Avrei voluto farlo ma ho sempre avuto l’impressione che ce l’avessero con noi». Ma esprime vicinanza ai parenti della vittima. E sulla sua agenda telefonica ritrovata tra gli oggetti nell’ufficio, risponde: «Apparteneva a mio padre. Fu ritrovata, dicono, dal papà di Simonetta tra gli effetti personali di sua figlia. E restituita in questura. Ma stranamente di quella agenda non c’è traccia tra i reperti. Scomparsa».

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