«Non sapevo nulla»: rapito dal ghetto di Varsavia da bambino, un uomo ritrova la sua famiglia a 83 anni

Per la prima volta, la scorsa estate, Shalom Koray ha incontrato un suo parente: «È un miracolo»

Shalom Koray ha 83 anni. Nel corso della sua vita non ha mai incontrato un parente che non fosse uno dei suoi figli o dei suoi nipoti. Per 83 anni non ha avuto una famiglia e non ha saputo nulla dei suoi genitori. Aveva due anni quando, nel 1943, stava camminando nel ghetto ebraico di Varsavia durante la rivolta della popolazione confinata contro gli occupanti tedeschi, prima di venire rapito e infilato in un sacco, probabilmente da un agente di polizia che ancora oggi rimane ignoto. Kuray trascorse i suoi primi anni di vita negli orfanotrofi, ancora senza protezione dalla persecuzione antisemita e senza alcuna reale comprensione di cosa significasse avere un genitore. Le cose sono cambiate cinque mesi fa, quando l’uomo ha avuto il primo contatto con un suo familiare. Grazie al desiderio di una donna americana di rintracciare i suoi antenati, alla curiosità di un accademico polacco sulla difficile situazione degli orfani dell’Olocausto e a un progresso nella tecnologia di analisi del Dna che ha reso possibili gli sforzi tenaci di un ricercatore.


L’infanzia nell’orfanotrofio

Shalom Koray, che ha ricevuto questo nome dopo essere emigrato in Israele all’età di otto anni, ha incontrato questa estate una sua parente: Ann Meddin Hellman, 77 anni, cugina di Charleston, Carolina del Sud. Una riunione che almeno in parte sconfigge le conseguenze dell’Olocausto, ricordate oggi, 27 gennaio, nel giorno della memoria, e 79esimo anniversario della liberazione del campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau. «Non puoi andare a cercare qualcosa se non sai cosa vuoi trovare», ha dichiarato Koray raccontando la sua storia al Guardian. «Non sapevo niente. Se non fosse per il test del DNA, non ci sarebbe nulla». Koray era stato affidato alle cure di un istituto cattolico intitolato a Sant’Andrea Bobol, a Zakopane, una città nel sud della Polonia, dopo essere stato fatto uscire clandestinamente dal ghetto nel 1943.


Il viaggio verso Israele

Fu lì che l’uomo incontrò Lena Küchler-Silberman, un’ebrea polacca che aveva lavorato per la resistenza sotto pseudonimo. Il compito della donna era prendersi cura degli orfani ebrei per poi portarli in Israele. Koray ricorda la visita della sua eroina. «Eravamo seduti lì, non so cosa stessimo facendo, tanti bambini in una sala, senza sedie, senza niente». «Nel mezzo c’era un camino. La donna si fermò sulla porta e iniziò a lanciare caramelle nell’ingresso». Mi dissi: «Se esco dal caminetto perdo il posto al caldo». «Rinunciai alle caramelle, ma rimasi accanto al camino», spiega. Presto arrivò il giorno della partenza. Attraversarono la Cecoslovacchia, la Francia e finalmente, nel 1949, arrivarono in Israele. Lì, Koray venne adottato e il suo nome divenne quello attuale. Oggi vive nel Nord di Israele. Per la maggior parte della sua vita ha lavorato sui camion.

L’incontro

La storia di Koray sarebbe rimasta un mistero se non fosse stato per il lavoro di Magdalena Smoczyńska, professoressa emerita all’Università Jagellonica. Da cinque anni Smoczyńska indaga sulla sorte di circa 100 bambini sopravvissuti all’Olocausto e finiti negli orfanotrofi alla fine della guerra, tra cui quello di Zakopane. L’estate scorsa, ha contatto Koray che si è sottoposto al test del Dna. A settembre, dall’altra parte del mondo, Ann Meddin Hellman, ha ricevuto un avviso, il Dna combaciava. «Il suo nome non significava nulla per me», ha ammesso la donna. ma grazie al lavoro di un ricercatore, Daniel Horowitz, si è lentamente costruito un albero genealogico. Infine, è emerso che il nonno di Meddin Hellman, Abrahm Louis Mednitzky Meddin, era emigrato negli Stati Uniti nel 1893, salvando inconsapevolmente la sua parte della famiglia dagli orrori del futuro genocidio in Europa. Abrahm Louis Mednitzky Meddin aveva un fratello, Yadidia Mednitsky, che purtroppo rimase indietro. Il test del Dna dimostra che Koray è nipote di Mednitsky. «Quando è arrivata la foto, io e mio marito abbiamo detto: Quello è mio fratello. Tutti abbiamo pensato che questo ramo della famiglia fosse stato annientato. Trovare Shalom è un miracolo», ha dichiarato la donna.

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