Cutro, tutte le domande senza risposta a un anno dalla strage: «Quel naufragio si poteva evitare»

Il 26 febbraio 2023 alle 4 di notte si schiantò sulla spiaggia il caicco partito dalla Turchia: 94 morti tra cui 34 bambini e 11 dispersi. Ma una verità accertata ancora non c’è

Il tempo sembra essersi fermato a quel 26 febbraio di un anno fa. Erano le 4 del mattino, quando sulla spiaggia di Steccato di Cutro si schiantò il caicco Summer Love partito due giorni prima dalla Turchia. 180 tra afghani e iraniani, fuggiti dai rispettivi regimi, alla ricerca di una seconda possibilità. Nell’ultimo miglio dalla terraferma morirono 94 persone, tra cui 34 bambini. I corpi di 11 migranti non furono mai trovati, risucchiati dalle acque gelide del Mediterraneo. A un anno da quel tragico giorno, con le famiglie delle vittime e i sopravvissuti riunitosi a Cutro, le cose sembrano non essere cambiate. Non si è arrivati a un verità giudiziaria, dopo 365 giorni le domande rimangono ancora senza risposta. Nella conferenza stampa seguita al Cdm speciale svolto a Cutro il 9 marzo scorso, la premier Giorgia Meloni minacciò gli scafisti di tutto il «globo terraqueo» mentre il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi colpevolizzò i migranti poiché «anche se fossero disperati, non dovrebbero partire». Il governo garantì però anche il ricongiungimento e i corridoi umanitari per i famigliari. Promesse tradite, almeno per ora. Degli 81 sopravvissuti, alcuni hanno scelto di rimanere a Cutro. Nel comune della provincia di Crotone vivono circa 9mila persone, 300 sono stranieri. 


«Il naufragio poteva essere evitato»

Dopo la visita di Piantedosi di due giorni fa alla tomba di Alì, la più giovane vittima della tragedia, stando a quanto scrive Repubblica, la questura di Crotone avrebbe consegnato ai sopravvissuti un modulo per chiedere la rivalutazione della richiesta di protezione internazionale al fine di concedere loro la protezione sussidiaria al posto di quella speciale. Quest’ultima, proprio per effetto del decreto Cutro, non è infatti convertibile in un altro documento. Anche l’ambasciatore dell’Afghanistan a Roma ha assicurato che «con l’esecutivo si sta lavorando per consentire i ricongiungimenti familiari». Ciò che chiedono i parenti delle vittime e i sopravvissuti è «giustizia e verità» e la possibilità, garantita dall’esecutivo, di potersi ricongiungere con le proprie famiglie. Lo hanno urlato a gran voce al corteo organizzato oggi dalla «Rete 26 febbraio», al quale ha partecipato anche la segretaria dem Elly Schlein. La loro posizione è unanime: «Vogliamo denunciare lo Stato italiano». Per non aver salvato i loro cari. Per aver lanciato l’allarme troppo tardi, per non essersi presi le responsabilità di quell’ennesima tragedia. «Il naufragio poteva essere evitato», raccontano all’Ansa due sopravvissute ventenni, Nigeena Mamozai e sua cognata, Adiba Ander. «Il governo italiano sapeva della presenza della nostra barca. Abbiamo visto un elicottero circa sette ore prima del naufragio. E lo hanno visto anche altri sopravvissuti». Ma a che punto siamo con le indagini?


Manifestanti durante il il corteo organizzato dalla “Rete 26 febbraio” in occasione del primo anniversario del naufragio di Cutro in cui morirono 94 migranti, a Crotone, 25 febbraio 2024 (ANSA/ LUIGI SALSINI)

L’iter giudiziario

Un anno dopo la strage le tre inchieste aperte dalla magistratura procedono a velocità differenti. Quella della procura di Crotone, giunta a processo, si è occupata dei presunti scafisti. Per la magistratura sono cinque le persone che hanno provocato la morte dei 94 migranti. Una è annegata durante lo schianto del caicco, gli altri quattro sono finiti a giudizio. Il ventinovenne turco, Gun Ufuk – che durante la confessione di inizio febbraio si è descritto come «rifugiato politico e capro espiatorio» – dovrà scontare 20 anni di reclusione e pagare una multa di circa tre milioni di euro. Secondo i giudici è responsabile di «favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, naufragio colposo e morte in conseguenza di altro reato».

Al termine del rito abbreviato, il giudice per le indagini preliminari lo ha anche condannato al risarcimento di alcune parti civili: i parenti delle vittime, il ministero dell’Interno e la Regione Calabria. Gli altri tre presunti capitani, Sami Fuat, anch’egli turco di 50 anni, Khalid Arslan, di 25, e il ventiduenne Ishaq Hassnan, entrambi pachistani, sono invece a processo davanti al Tribunale che li sta giudicando con il rito ordinario. Durante l’udienza, il sostituto commissario della Polizia di Crotone, che ha condotto l’indagine sul naufragio, ha precisato come dagli esami dei cellulari degli imputati e delle conversazioni via Whatsapp sia emersa l’esistenza di una rete di trafficanti di uomini che organizza i viaggi dalla Turchia verso l’Europa. Su quest’ultima vicenda è stata aperta un’inchiesta parallela della Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro, tuttora in corso. 

«La Guardia Costiera sapeva, ma non era sul posto»

I primi a precipitarsi in spiaggia per salvare le persone migranti dal mare furono tre pescatori: Vincenzo Luciano, Gabriel Curca e Ivan Paone. Il 14 febbraio scorso Curca e Paone hanno testimoniato in aula, confermando le falle e i ritardi nel sistema dei soccorsi. «Quando ho chiamato la Guardia costiera (alle 4.34, ndr) per avvisarla della presenza di una barca in pericolo, mi hanno detto che sapevano già dell’imbarcazione naufragata, ma sul posto, in quel momento, non c’era ancora nessuno: né loro e neppure i carabinieri», la risposta di Paone nel corso dell’udienza davanti al Tribunale di Crotone. «Abbiamo tirato fuori dall’acqua persone vive e tanti morti – ricorda il pescatore -, tutti quelli che potevamo, ma eravamo soli su quella spiaggia». 

L’inchiesta procede, ma a un anno di distanza i tre pescatori non riescono a dimenticare quelle tragiche immagini: «Ci vengo ogni mattina. I ricordi restano. Vengo qui e penso… qui ne ho trovato uno, qui ne ho trovato un altro…», racconta Luciano, intervistato dai media in occasione della tre giorni di commemorazione a Cutro. «C’è gente che ancora non è riuscita a fare un bagno al mare, io non ce la faccio – conclude -. Ho messo i piedi in acqua e mi vengono in mente quei bambini con gli occhi aperti». Nella stessa udienza contro i presunti scafisti anche il vicebrigadiere dei carabinieri Gianrocco Chievoli ha confermato la testimonianza dei pescatori. «Da quando avevo preso servizio, da mezzanotte, nessuno ci aveva avvertito che stava per arrivare una barca di migranti. Appena arrivati sulla spiaggia ci siamo resi conto della gravità della situazione ed abbiamo chiesto rinforzi – sottolinea -. La prima pattuglia di colleghi di Botricello l’ho vista circa 40 minuti dopo». Il processo è stato aggiornato al 10 aprile per sentire tre dei superstiti che si trovano ora ad Amburgo e che verranno ascoltati, con rogatoria internazionale, in videoconferenza.

I mancati soccorsi, il ritardo e il rimpallo di responsabilità

Nel frattempo, la chiusura delle indagini relative al secondo filone, quello sui presunti ritardi nei soccorsi al caicco in difficoltà dopo la segnalazione arrivata la sera prima da Frontex, è attesa entro un mese. Nel registro ci sono sei nomi: tre finanzieri in servizio a Vibo Valentia, Taranto e Crotone e tre coperti da omissis, ma che stando a fonti informate potrebbero essere militari della guardia costiera. Le accuse a loro carico sono «naufragio colposo, rifiuto e omissione di atti d’ufficio e omicidio colposo». Al vaglio degli inquirenti il lasso di tempo tra le 22.26 del 25 febbraio quando la Summer Love è stata avvistata dall’aereo Eagle One dell’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera e le 4.15 del 26 febbraio 2023, l’ora presunta del naufragio. Perché le operazioni di soccorso in mare non sono partite? E perché, una volta avvenuto lo schianto, sono arrivati in ritardo?, si chiedono da più parti. L’agenzia Ue e le autorità italiane (guardia di finanza e guardia costiera) si sono rimpallate fin da subito le accuse sul mancato soccorso. 

Nei giorni scorsi è stato rivelato un particolare: la notte della tragedia nella control room di Frontex a Varsavia – scrive Euractiv, che ha visionato un documento del 17 novembre scorso – c’erano due ufficiali italiani, «che avrebbero sottovalutato il pericolo». Il Fundamental right office (Fro), che monitora l’attuazione degli obblighi di Frontex in materia di diritti fondamentali, ha scritto nel report che casi come questo «possono degenerare rapidamente in un’emergenza» e che «un attento monitoraggio, o addirittura l’assistenza da parte delle autorità italiane in tali casi è imperativo». Il ruolo di Frontex è però ancora tutto da accertare: il 6 settembre scorso, i periti interpellati dalla Procura di Crotone per stabilire cosa accadde nella notte tra il 25 e il 26 febbraio 2023, evidenziarono come le informazioni diffuse dall’Agenzia agli interlocutori istituzionali fossero «molto approssimative, se non fuorvianti». Fatto sta che dalle indagini, dalle dichiarazioni e testimonianze raccolte emerge, a distanza di un anno dalla tragedia, un quadro con molte circostanze da chiarire. E a spese, ancora una volta, di chi rischia la vita per un futuro (migliore). 

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