«Così prendemmo Sandokan»: i pedinamenti, la perquisizione di 15 ore, la resa. Il racconto della cattura di Francesco Schiavone

Il capo clan dei Casalesi, al 41 bis da 26 anni dopo l’arresto nel 1998, fu scovato in un bunker a Casal di Principe

Fu una indagine classica a portare alla cattura di Francesco Schiavone. L’ex boss dei Casalesi, in carcere dal 1998 in regime di 41-bis, ha deciso di collaborare con la giustizia dopo 26 anni dietro le sbarre. E dopo il pentimento del figlio, il primogenito Nicola, nel 2018 e tre anni più tardi del fratello Walter. A raccontare come avvenne la scoperta del rifugio in cui si nascondeva il latitante, a la Repubblica, è Guido Longo, ex capocentro della Dia ed ex questore di Palermo, Reggio Calabria e Caserta. Sandokan, questo il soprannome del capo clan dei Casalesi, fu stanato in un bunker nella sua Casal di Principe, grazie a mesi di pedinamenti, intercettazioni, appostamenti, osservazioni. «È stata una indagine classica con gli uomini della Dia, niente pentiti o soffiate», ha ricordato Longo, «la moglie è stata decisiva. Seguendo Giuseppina Nappa siamo giunti a lui. Lo andava a trovare nel suo rifugio, talvolta con i figli. Ma non era facile starle dietro senza che se ne accorgesse». Gli investigatori individuano l’area dove si nasconde il boss, comunque nella sua città, ma per identificare l’esatta posizione di Sandokan ci vuole più tempo. Fino alla certezza e alla perquisizione: un blitz infinito di 15 ore.


I lacrimogeni e la resa

«Siamo arrivati in quel posto alle ventuno e solo alle 12.30 del giorno dopo, 11 luglio, abbiamo avuto la certezza di aver preso il latitante», spiega Longo, «quindici ore o giù di lì prima dell’arresto, avevamo perquisito la casa da cima a fondo ma sembrava non ci fosse». In effetti Schiavone non è esattamente lì, ma non è neanche troppo distante. «Individuammo questa casupola dove venivano conservati attrezzi agricoli di piccolo cabotaggio», prosegue l’ex questore, «alle prime luci dell’alba vedemmo che c’erano delle prese d’aria che mal si conciliavano con quel box. A cosa potevano servire se non a un locale sotterraneo?». A quel punto è stato necessario l’intervento dei vigili del fuoco che con le motoseghe hanno demolito le pareti del ripostiglio. Schiavone, la famiglia e i suoi si arrendono immediatamente. A fargli compagnia c’erano due kalashnikov con tanto di caricatori doppi legati con lo scotch. Non avesse avuto moglie e bimbi con sé non escludo che avrebbe aperto un conflitto a fuoco. E invece Sandokan, svegliato dai rumori delle forze dell’ordine, sceglie la resa: «Lanciammo dei lacrimogeni in quelle condotte e lui, il boss, prese a urlare: “Non sparate, ci sono i bambini, tranquilli, sto qui, non fate niente mi raccomando”». Ora Schiavone ha deciso di parlare, e tanti segreti potrebbero cadere. Soprattutto, dice Longo, quelli sui «lucrosi appalti del post terremoto: la forza dei Casalesi parte da lì».


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