Arriva il mensile «Eco», il direttore Tito Boeri: «Senza salario minimo giù tutti i redditi. Ma Conte e Schlein hanno sbagliato a sparare i 9 euro» – L’intervista

Debutta con un numero sull’enigma del mercato del lavoro italiano – più occupati ma meno potere d’acquisto – il nuovo mensile di economia che vuole «permettere alle persone di ragionare con la loro testa, imparando un po’ il metodo degli economisti»

«Il linguaggio dell’economia è entrato nella mente di tutti e questo porta molti a immaginarsi economisti, così come ai Mondiali si è tutti allenatori della Nazionale di calcio». Il paragone, firmato Tito Boeri, fa parte dei principi che guidano le scelte editoriali di Eco, la nuova rivista mensile diretta dall’economista dell’Università Bocconi in uscita domani, sabato 13 aprile. E se i valori programmatici del magazine sono tre – valutare le politiche pubbliche a partire dai dati, i dati non si fanno intimidire, rifiuto del negazionismo economico -, c’è un semplice punto di partenza per la nuova avventura editoriale di Boeri, che dopo gli anni da presidente dell’Inps, torna alla missione della divulgazione economica iniziata con Lavoce.info. «In Italia c’è una fortissima domanda inevasa di informazione economica di qualità», spiega seduto alla sua scrivania del palazzo di vetro della Bocconi. «Spesso si ha il sospetto che l’informazione economica sia condizionata o poco comprensibile. Noi vorremmo che Eco diventasse innanzitutto uno strumento per chi legge, per permettere alle persone di ragionare con la loro testa e di analizzare i dati nel modo giusto, imparando un po’ il metodo degli economisti».


Il primo numero di Eco è dedicato al paradosso del mercato del lavoro in Italia: l’occupazione è ai massimi storici ma le tasche dei lavoratori sono più vuote.


«Come scriviamo nel titolo di copertina, il lavoro non basta. Se è accompagnato da un peggioramento dei livelli salariali, non consente alle persone né di uscire da condizioni di disagio economico, né di sentirsi realizzate. Non c’è dubbio che in Italia ci sia stato un peggioramento sensibile dei salari reali, a differenza di altri Paesi che hanno visto invece un recupero di quanto perso con l’inflazione. Da noi i salari sono rimasti al palo e questo è avvenuto soprattutto per le fasce più basse, come gli operai, che non hanno reti di protezione».

La copertina del primo numero della rivista «Eco»

Quali sono le cause?

«Analizzando molteplici dati, abbiamo visto che la contrattazione collettiva ha dei buchi vistosi. Il tasso di sindacalizzazione in Italia è molto più basso di quello che viene dichiarato ufficialmente dai sindacati. Molti lavoratori sono tutelati da contratti nazionali ma fatti da sigle di comodo, che permettono ribassi importanti. Proliferano i cosiddetti “contratti pirata” che portano a diminuzione di oltre il 20% rispetto a quelli siglati dai sindacati confederali».

Uno studio della Fondazione Adapt sostiene che i contratti pirata siano un non-problema del mercato del lavoro perché si applicano solo al 3% dei lavoratori dipendenti.

«È un pensiero ragionieristico. Il fatto che siano pochi i lavoratori coinvolti non vuol dire che questi contratti non abbiano effetto sui salari degli altri. Se una parte dei lavoratori può essere pagata il 20% in meno degli altri, questo trascina al ribasso i salari di tutti perché indebolisce fortemente la contrattazione collettiva. A maggior ragione in un mercato del lavoro dove non c’è il salario minimo».

A questo proposito, la proposta di legge sul salario minimo delle opposizioni è stata respinta. Colpa del governo che non riconosce il problema o della proposta di legge?

«Credo sia stato un errore voler stabilire un livello di partenza senza preoccuparsi di andare a guardare i dati oggettivi. Scegliere il livello giusto del salario minimo è ancora più importante della decisione di applicarlo. Se la cifra è troppo bassa, lo strumento non ha alcun effetto. Se è troppo alta, rischia di creare disoccupazione proprio tra quei lavoratori che vorrebbe tutelare».

Quindi l’errore è stato lo slogan dei 9 euro?

«Aver sparato una cifra è sbagliato proprio come principio, perché sono scelte davvero complicate».

Cosa risponde a chi dice, come il Cnel nella sua relazione, che una paga oraria minima comporterebbe una distorsione del mercato del lavoro e che il salario minimo funziona in quei Paesi dove non c’è la contrattazione collettiva, mentre da noi, visto che c’è, non serve?

«Se stabilito a un livello appropriato, il salario minimo permette di ridurre le distorsioni del mercato che si creano quando, ad esempio, c’è troppo potere da parte del datore di lavoro. Il salario minimo può avere effetti positivi sull’occupazione e lo dico sulla base di quello che è successo in altri Paesi. E certo non si contrappone alla contrattazione collettiva, ma va di pari passo con essa. Esiste in Paesi come la Germania e la Francia, dove la contrattazione collettiva coinvolge quasi la totalità dei lavoratori. Questa negazione del suo ruolo dipende dal fatto che siamo rimasti indietro anche nell’analisi economica».

Il salario minimo può aiutare alcune categorie di lavoratori, ma come si interviene sulle buste paga della classe media?

«Rafforzare la contrattazione collettiva serve anche ad aumentare i salari al di sopra del livello minimo. Per riuscirci, i sindacati dovrebbero innanzitutto affrontare una volta per tutte il nodo della rappresentatività, e poi favorire una maggiore contrattazione aziendale. Ci sono differenze di produttività significative tra le aziende italiane. La contrattazione aziendale permetterebbe di valorizzare l’efficienza di quelle più produttive, con un aumento in busta paga dei dipendenti. Portare avanti la contrattazione solo su un piano nazionale significa invece trovare un compromesso a ribasso e non premiare chi produce valore. Poi, certo, bisogna migliorare l’ingresso nel mercato del lavoro, facilitare l’incontro tra le competenze richieste dalla domanda-offerta e spingere le innovazioni associate allo sviluppo dell’intelligenza artificiale che possono permettere di aumentare considerevolmente la produttività di molti lavori».

Cosa pensa della presunta disaffezione delle nuove generazioni verso il lavoro? Fenomeni come le grandi dimissioni o il quiet quitting sono passeggeri o espressione di un cambiamento culturale legato al lavoro?

«Dopo la pandemia, alcune persone che si erano abituate a lavorare da casa hanno avuto difficoltà ad adattarsi a una situazione lavorativa in cui veniva richiesta nuovamente una presenza più assidua. Le visioni un po’ eccessive – come il south working o l’idea che avremmo potuto lavorare ovunque – sono state notevolmente ridimensionate. L’aumento dell’occupazione dimostra che la gente vuole lavorare. Mi preoccupa di più il fenomeno dei Neet, i giovani che non studiano e non lavorano. Alcuni di questi cercano lavoro, ma ci sono anche ragazzi totalmente inattivi. Su questo faremo approfondimenti».

Il consiglio dei ministri ha dato il via libera al Documento di economia e finanza nella versione light “concordata” con Bruxelles. Il ministro Giorgetti ha attribuito il peggioramento dei conti agli effetti del superbonus. È d’accordo?

«Il Superbonus è stato un disastro per le finanze pubbliche in Italia, e la responsabilità è di diversi governi. Resta una delle iatture maggiori della nostra storia, al livello delle baby pensioni. Detto questo, non capisco questa continua esplosione di cifre da parte del governo. Se effettivamente avessimo speso così tanto di più quest’anno, lo vedremmo nell’andamento dell’economia. Per quanto ritengo che gli investimenti in edilizia non abbiano effetti dirompenti sull’economia, se spendiamo molto di più in quel settore dovrebbe vedersi un effetto sul Pil italiano, che invece è rallentato. Come mai? Trovo molto sbagliato che in questo momento un governo non dia il quadro programmatico perché vuol dire disorientare l’opinione pubblica, le famiglie, e anche dimostrare che proprio non si ha la capacità di gestire i conti».

Perché parla di disorientamento?

«Il messaggio che arriva alle famiglie italiane è: i tagli al cuneo fiscale e all’Irpef fatti quest’anno non riusciremo a farli l’anno prossimo. E così si indebolisce anche l’efficacia di questi strumenti perché le persone fanno scelte lavorative e investono se sanno che le misure sono durature. E invece con questa mossa, il governo confessa che non ha i soldi per rinnovarle».

Eppure per la Commissione europea va bene comunicare il quadro entro settembre, e c’è chi sottolinea che di fatto la Def è sempre stata superata dalla Nadef a settembre.

«L’Europa si prepara alle elezioni quindi la Commissione è debolissima. Il problema non è l’Europa ma il giudizio dei mercati e ancora prima il comportamento delle famiglie. La scelta se lavorare o meno, se investire o meno: queste sono le cose di cui un governo dovrebbe preoccuparsi. E invece si continua a tenere tutti nell’incertezza, a rinviare e a buttar via soldi».

Nello scontro sul limite del 2026 per l’attuazione del Pnrr ha ragione il governo italiano che chiede una proroga o il commissario Gentiloni che vuole far rispettare la scadenza?

«Al primo Festival dell’economia di Torino ho chiesto a Gentiloni se potevamo allungare i tempi di attuazione del Pnrr perché ci sono troppi soldi da spendere in troppo poco tempo. Quella preoccupazione adesso si sta manifestando concretamente, quindi sono assolutamente a favore di una proroga perché i soldi vanno spesi bene o piuttosto non spesi. Non bisogna accelerare buttando via denaro. Occorre però ricordare che il piano è nato durante la pandemia con l’obiettivo di usare queste risorse per risolvere innanzitutto i problemi del nostro sistema sanitario. Alla fine stiamo spendendo pochissimo sulla salute mentre il sistema sanitario è in grandissima difficoltà. Le revisioni fatte dal governo non vanno nella direzione che speravo. Per certi aspetti aumentano ulteriormente altre forme di spesa, che si allontanano ancora di più dalla sanità».

La rivista è in vendita da sabato in edicola e in versione digitale su rivistaeco.com

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