Il ritorno di Salmo: «Per la prima volta ho avuto paura di perdere tutto» – L’intervista


L’attesa è finita, Salmo è tornato. Il nuovo disco, il settimo da solista, si intitola Ranch. Un luogo per richiamare un concetto ben preciso: l’isolamento che si è imposto, come racconta, per riappropriarsi di sé stesso, come uomo e come artista. Un percorso che certifica la sua matrice artistica ormai adulta, segnata dall’essere intellettualmente troppo irrequieto per arrivare ad una risoluzione definitiva. E noi nel frattempo possiamo goderci il viaggio, la scoperta, la crescita di quello che è uno dei più importanti rapper della scena italiana. Ranch è un disco che segna la ricerca di Salmo, che varia in scioltezza e con efficacia tra il rap e il puro cantautorato, mentre nei brani l’artista si espone come mai prima, denudandosi e concedendosi al pubblico in ogni singola sfaccettatura.
Ranch è un disco evidentemente ispirato da una necessità…
«Era una necessità ed è venuto fuori da solo mentre stavo lavorando ad altro, per Gangs of Milano. Lì dovevo recitare, essere un’altra persona, quindi non è stato facile per niente. È come se la musica fosse stata gelosa del mio essere su altro, come se mi avesse detto: “Guarda che sono qua! Sono ancora qui presente!”. E le canzoni sono venute fuori già con le parole»
Il cinema, la letteratura, effettivamente sono attività a cui stai dando tanta attenzione, in quei linguaggi sembra che tu ti riconosca molto: è così?
«Sì, tutto quello che rappresenta l’arte mi incuriosisce. L’arte è una famiglia gigante e io voglio conoscere tutti i parenti. La cosa che accomuna tutte queste cose è sempre la voglia di comunicare. Sempre quello è il punto. Non è mai né avere successo, né fare i soldi. A volte è spaventosa, perché mi rendo conto che non decido io quando smettere e quando iniziare. E quando non ci sto pensando e arriva da sola senza avvisarmi e mi entra in casa di notte, così, senza dire niente, escono sempre delle belle cose»
È anche questo parte dell’essere On Fire?
«A questo giro sì, penso di essere abbastanza On Fire. Sono contento e mi sento stranamente mega reattivo, come un emergente. Come se fosse il mio primo disco ed è una bella sensazione»
Quando hai presentato il disco hai parlato del rapporto tra il rap e l’onestà, secondo te il rap ha un problema con l’onestà?
«L’onestà è un problema che si ha con le persone in generale. Ci sono rapper italiani giovani che sono molto forti, che si esprimono bene e dicono le cose giuste. Però è solo una piccola parte, gli altri un po’ stanno dentro questo cliché: una grande pentola di monnezza da cui non riescono ad uscire. Dovrebbero raccontare la loro storia, la verità, essere onesti con sé stessi invece di raccontare la storia degli altri»

Nel disco dici anche «La mia musica è una falla del sistema». Effettivamente sono rari i rapper quarantenni che riescono a farsi apprezzare sia da un pubblico adulto, sia da un pubblico di ragazzi, che poi è il pubblico del rap, perlomeno quello da classifica…
«I ragazzini di 13-14 anni non seguono Salmo, ma è giusto così. Non voglio che i ragazzini di 13 anni mi seguano, perché io non parlo a loro, non mi capirebbero. Un ragazzino di 13 anni ascolta Crudele e non ci capisce un cazzo. Tutti quelli della mia età mi dicono: “Quello è il pezzo più bello che hai fatto, perché sei diventato grande e quando parli dalla famiglia ti tocca”. Un ragazzino se tu parli della famiglia non gliene frega un cazzo e, diciamoci la verità, il rap è musica per ragazzini, ed è giusto che sia così. Ecco perché uno come Kaos non streamma, però ti posso assicurare che Kaos è rimasto nel cuore di molte persone»
A proposito di Kaos, è l’unico featuring di Ranch…
«Qui si parla davvero di chi ha fatto la storia, cioè di chi ha spianato la strada. Se parliamo di Kaos e di Neffa stiamo parlando di una primizia dell’hip hop italiano»
Però non streammano. E non si capisce bene nemmeno perché…
«Diciamo che tra i giovani c’è poca voglia di documentarsi ed è assurdo perché ce l’abbiamo qua. Cioè, da ragazzini non avevamo questa enciclopedia infinita nel telefono. E forse è quello il punto: la gente prima andava a cercare delle cose che non poteva avere. Forse molte volte è la comodità delle cose che non ti fa venire la curiosità. Poi effettivamente uno può dire che non è importante sapere chi è Kaos per fare musica, però ti posso assicurare che se tu sai chi è Kaos la tua musica probabilmente sarà molto più bella. Te lo posso assicurare perché l’ho provato sulla mia pelle. E non è solo una cosa che riguarda Kaos. Nella cultura, in generale, se tu ti documenti, rielabori, hai delle informazioni sane, il tuo lavoro diventerà molto più bello. Se invece stai lì a morderti la coda, a ispirarti a un ragazzo che ha vent’anni, che vive ora, la tua musica rimarrà lì»
Tu ci pensi mai ai numeri?
«Ce ne dovremmo sbattere degli streaming. Anch’io piano piano inizio a diventare più grande e avrò sempre meno streaming, perché non parlo alla generazione di ventenni»
Parlando ad un pubblico di giovanissimi, credi che il rap abbia delle responsabilità?
«Io l’unica responsabilità che ho è di dire quello che penso. Bisognerebbe dire basta a questa roba di puntare il dito contro gli artisti. Le persone hanno detto le cose peggiori sui rapper, perché ora? Perché il rap è famoso. Allora non è un problema del testo, il problema è che a te non va bene che i rapper siano famosi»
Effettivamente ormai c’è la tendenza a dare la colpa genericamente alla cultura hip hop…
«Anche basta dare la colpa ai rapper, se i ragazzini si comportano male sono i genitori che devono dargli l’educazione, non noi. È troppo facile dire: “Voi avete responsabilità rispetto i nostri figli”. Se io avessi dato retta a tutte le cose che ho ascoltato e che ho visto nella mia vita, a quest’ora sarei in galera. Se dai retta ai film, ai libri, alle canzoni, allora c’è un problema. Se le persone fanno delle cazzate, il problema è in casa»

Cosa pensi della laurea ad honorem negata dall’Università di Messina a Marracash?
«Penso che Fabio non abbia bisogno di nessun attestato, l’abbiamo già dato tutti noi a Marra. Gli abbiamo dato anche il trono, lui lo sa bene, ma penso che non gli importi. Penso che quelle persone che si sono opposte alla laurea ad honorem a Fabio non sappiano niente di Marra, non capiscano niente né della cultura, né della poesia, né dei rapper. È solo gente che sta su Facebook, che ha 50 anni e vuole rompere i coglioni. Fabio sa di essere un grande artista, quindi si fottano»
Come mai l’Italia non riesce ad assorbire il rap a livello anche mainstream come succede altrove?
«Beh, sicuro il rap è la forma di comunicazione più bella e più interessante che ci sia…è veramente magico. Ci sono tante sfaccettature dentro ed è triste che molti italiani non l’abbiano capito. Diciamoci la verità, gli italiani di hip hop non capiscono niente, zero. L’hip hop in Italia è proprio l’ananas sulla pizza. Tu prova a far capire agli italiani che l’ananas, che anche a me fa schifo nella pizza, potrebbe essere ok. Il rap nessuno l’ha capito perché non è la nostra cultura. E anche il fatto di stare lì ancora a fare finta di essere in America è un po’ strano»
Questa irrequietezza, o forse insofferenza, che alle volte sfiora perfino l’arrabbiatura, deriva da una coscienza civile o dal tuo stile?
«A ‘sto giro avevo paura di perdere la creatività. A un certo punto gli artisti hanno paura di perdere tutto. Hanno paura di perdere i fan, di perdere quello che hanno costruito. Mi è venuta fuori un po’ di rabbia perché avevo paura. Sai quando cerchi di difendere coi denti le cose che hai conquistato? A volte la rabbia, l’inquietudine, viene fuori da questo. In più nell’ultimo periodo, prima di Ranch, non me la stavo passando molto bene. Diciamo che mi stavo divertendo un po’ troppo. Avevo bisogno di cambiare vita, quindi a volte un po’ di inquietudine esce fuori. Purtroppo è il motore dell’arte a volte. Non mi ricordo chi, quando gli hanno chiesto “Perché scrivi canzoni tristi?” ha risposto: “Perché quando sono felice esco di casa”»
Per studiare il personaggio della serie e po per concentrarti sul disco hai deciso di isolarti in Sardegna. C’entra anche la paura di cui parli?
«Mi sono isolato per un’esigenza, perché era tutto troppo. I social, stare sotto i riflettori, vivere a Milano, rincorrere la vita rock and roll, iniziava a pesarmi. Come ha detto in un’intervista Jim Carrey, “A volte la depressione ti viene perché il tuo corpo dice che non vuole più interpretare quel personaggio”. È successo più o meno anche a me. A un certo punto il mio corpo mi ha detto che non volevo più essere Salmo, non volevo più rappresentare questo personaggio. Mi ha detto: “Se continui così non riuscirai più a fare musica”»
Per questo hai scelto proprio la Sardegna?
«Si, è come se mi avesse detto: “Devi tornare all’origine, devi tornare da dove sei partito”. Cioè tornare a casa, tornare in Sardegna, allontanarti da tutti e ritrovare un po’ di creatività»
E hai trovato un nuovo personaggio?
«No, ho trovato me stesso. Sono andato a levare tutte le maschere. Nel cinema, quando devi ricercare un personaggio, devi studiare tre maschere: la maschera che indossi quando sei in pubblico, la maschera che indossi quando stai lavorando e la maschera che indossi quando sei da solo. Perché alle volte diciamo delle bugie anche a noi stessi. Quindi sono arrivato all’ultima maschera, l’ultimo strato, e ho messo tutto nel disco. Quindi non ho creato un altro personaggio, anzi sono andato proprio a grattare»
Quando si fa un disco così intimo ci si sente più nudi o più esorcizzati?
«Nudi ed esorcizzati»
Anche risolti?
«Sì, credo. L’idea di Mauri, per esempio, è che nella prima strofa un amico parla per me, si chiede “Dove è finito Mauri?”, e l’altro risponde: “Guarda il tipo è scomparso, vuol farsi i cazzi suoi”. Nella seconda strofa io rispondo all’amico, quindi è un po’ come rispondere al chiacchiericcio delle persone, a quello che possono dire di te: “Raga va tutto bene, sto molto bene, ho trovato la pace”. Non a caso è l’ultimo pezzo del disco, quindi sì»

Sei uno degli artisti più in evoluzione del panorama italiano, dal rap puro a un rap dalle forti influenze cantautorali, ma senza lasciarti indietro niente. Ti sei mai chiesto questa evoluzione dove ti porterà?
«Forse sto cercando di capirlo, però credo che sia quasi chiaro. Esaminando i miei dischi ti rendi conto che in ogni disco c’è sempre un po’ più di melodia. Poi chissà, magari in un’altra vita ero un cantautore. So di certo che mi piace molto cantare, a volte rappare mi sembra riduttivo, mi sembra di fare poco, mi sembra di fare il 5% di quello che so fare. Se i prossimi dischi dovessero andare nella direzione del cantautorato, ben venga, why not? Potrebbe essere quello il futuro, mi piacerebbe e lo sto già mettendo in pratica. Poi non lo so, non so mai che cosa succederà, magari il prossimo album sarà techno, tutto techno. Sarebbe divertente. Io sono un bambino curioso»
Hai annunciato un tour mondiale, pensi che la tua musica abbia una dimensione internazionale?
«Non voglio fare il rapper egocentrico, ma penso di essere uno degli artisti più internazionali che ci siano in Italia e continuo a dimostrarlo negli anni. Tra i videoclip, la roba del cinema, i live, che cazzo devo fare di più? Il problema mio è che forse inizio a diventare un po’ grande. Se avessi vent’anni con le stesse esperienze, forse mi avrebbero notato di più in giro per il mondo. A livello internazionale stanno girando quelli più giovani e non quelli più grandi, come mai? Perché i trend sono in mano ai giovani. Uno di vent’anni vuole seguire un suo coetaneo. Uno come Central Cee non chiama Salmo, chiama uno di vent’anni che fa trend. Quelli della mia generazione sono un po’ intrappolati. Per me è difficile a quarant’anni, adesso, cercare di conquistare l’Europa o il mondo. Ranch può essere anche il disco più rivoluzionario e originale del mondo, ma non farò mai tendenza. Se adesso dovessero arrivare tre band di ventenni che fanno punk, il punk esploderebbe e tra dieci anni diranno “Che bello il punk! È la cosa più bella del mondo!”. Chi cazzo se lo filava il rap prima? Sono arrivati dei ventenni che l’hanno unito alla moda e hanno fatto esplodere questa cosa qua. Però devi avere vent’anni, io dove cazzo voglio andare? Quel treno probabilmente è già passato, però chi se ne frega»
A 40 anni è chiaro che si tende a tirare le somme per la prima volta veramente. A te è successo e la musica, lavoro a parte, che ruolo senti ha avuto nella tua vita?
«Forse non so ancora cosa rappresenti, ma sono felice che sia ancora viva e che sia On Fire più che mai. È come quando sei fidanzato e stai per lasciarti e ti accorgi che ci tieni ancora tanto, e quel rapporto poi finisce per rafforzarsi. Ecco, è quello che è successo, secondo me. Avevo paura di perdere questa fidanzata, invece poi ho detto “No, sono ancora innamorato”, allora si è rafforzato»