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Omeopatia, ecco cosa c’è che non va nei “280 studi” che la sostengono. Enrico Bucci: «Dati deboli, fonti male interpretate, esperienze personali sovrapposte ai fatti»

12 Maggio 2025 - 13:01 Juanne Pili
L’omeopatia non è efficace nemmeno come integrazione o supporto alle terapie convenzionali, ecco perché

Il fatto che i medici italiani possano anche esercitare il ruolo di omeopati, prescivendo i relativi preparati che fino a oggi non hanno mai dimostrato alcuna efficacia, accende continue polemiche e dibattiti. Ricordiamo infatti che stiamo parlando di diluizioni estreme di un principio attivo nelle quali – come riportato in questa guida pubblicata dal CICAP -, arrivati a un certo punto non sarebbe possibile trovare alcuna traccia delle sue molecole. Stando alle leggi della chimica e della fisica l’idea che l’acqua conservi memoria delle sostanze in cui entra a contatto, alla base dell’omeopatia, ha più a che fare con la “magia” che con la scienza. Trovate maggiori approfondimenti su questa medicina alternativa nelle nostre analisi precedenti (per esempio qui e qui).

Di recente il virologo Roberto Burioni ha sollevato la questione, spingendo il dottor Bruno Galeazzi, presidente della Federazione Italiana delle Associazioni e Medici Omeopati (FIAMO), a rispondere in una intervista su La Stampa. Galeazzi ha affermato che le evidenze scientifiche sulla validità dell’omeopatia esisterebbero già: «285 studi clinici randomizzati e controllati, quindi in doppio cieco, che coprono 152 diverse condizioni cliniche. […]. Tutti nel loro insieme ci danno un’evidenza molto chiara del fatto che il preparato omeopatico contiene informazioni specifiche che hanno attività su modelli viventi molto semplici di laboratorio e che mostrano una validità anche in ambito clinico, sia in medicina umana che veterinaria».

Quali sarebbero questi “280 studi”?

Non esiste una revisione sistematica o una meta-analisi basata su oltre 280 studi corrispondente. Tuttavia, facendo una ricerca per parole chiave è possibile risalire a un articolo pubblicato sul sito Web del Homeopathy Research Institute (HRI). Secondo l’Istituto, alla fine del 2023 sarebbero stati pubblicati 286 studi randomizzati e controllati sui trattamenti omeopatici, relativi a 152 condizioni mediche, su riviste peer-reviewed. Di questi però solo 166 erano anche in doppio cieco e con placebo, relativi a 100 diverse condizioni mediche. Secondo l’analisi dell’HRI, il 42% di questi studi (70 in tutto) ha mostrato risultati positivi, il 3% risultati negativi e il 55% risultati non conclusivi.

L’ex medico Rossana Garavaglia, specializzata in psichiatria e master in patologia genetico molecolare, aveva criticato il resoconto dell’HRI il mese scorso, constatando che persino le revisioni sistematiche e meta-analisi citate a supporto dell’omeopatia, come quelle di Robert Mathie (spesso associate all’HRI), concludono che la qualità degli studi risulterebbe bassa o non chiara e che sarebbero necessari studi più rigorosi e meglio disegnati per ottenere stime affidabili degli effetti.

«La qualità delle evidenze è scarsa. Una meta-analisi di tutti i dati estraibili porta al rifiuto della nostra ipotesi nulla, ma l’analisi di un piccolo sottogruppo di evidenze affidabili non supporta tale rifiuto. Le meta-analisi specifiche per ciascuna condizione mancano di evidenze affidabili, il che preclude conclusioni pertinenti. Sono necessari RCT meglio progettati e più rigorosi per sviluppare una base di evidenze in grado di fornire in modo decisivo stime affidabili dell’effetto di un trattamento omeopatico non individualizzato» (Mathie et al., 2017).

Secondo Garavaglia, anche la meta-analisi di Aijing Shang del 2005 concluse che l’evidenza di un effetto specifico dei rimedi omeopatici era debole, mentre forte per gli interventi convenzionali, suggerendo che gli effetti osservati per l’omeopatia fossero compatibili con quelli del placebo. La stessa pubblicazione analizzata da Garavaglia, pur affermando un effetto statisticamente significativo in una revisione di meta-analisi del 2023, ammette la necessità di ulteriore ricerca.

«Sia gli studi clinici controllati con placebo sull’omeopatia che quelli sulla medicina convenzionale presentano bias. Tenendo conto di questi bias nell’analisi, si è riscontrata una debole evidenza di un effetto specifico dei rimedi omeopatici, ma una forte evidenza di effetti specifici degli interventi convenzionali. Questo risultato è compatibile con l’idea che gli effetti clinici dell’omeopatia siano effetti placebo» (Shang et al. 2005).

Cosa dimostrerebbero

Il professor Enrico Bucci, esperto nella revisione degli studi scientifici, ha analizzato gli unici 70 paper con esito «positivo» secondo l’HRI, dei 166 con doppio cieco e placebo, che a loro volta vanno sottratti dal totale che Galeazzi cita.

Ma il dato più significativo, come sottolinea Bucci, è che questi 70 studi positivi riguardano 60 condizioni cliniche differenti (molte meno delle 152 menzionate dal Presidente di FIAMO), e nella quasi totalità dei casi, i risultati sono isolati e mai replicati. Nella pratica della medicina basata sulle prove, un effetto osservato una sola volta e senza conferma indipendente non possiede valore probante. L’efficacia clinica richiede la replicazione coerente dei risultati da parte di gruppi di ricerca diversi e in contesti molteplici. Cosa che non accade per l’omeopatia.

Questi 70 paper presentano profonde criticità. Nel mucchio troviamo per esempio «uno studio ritrattato formalmente dalla rivista PLOS ONE nel 2016 – continua Bucci – per carenze metodologiche e mancanza di trasparenza nei dati». Un altro articolo si ritrova con «due correzioni e una note of concern da parte della rivista Oncologist per problemi di affidabilità, con estesa discussione critica pubblica». C’è anche una ricerca che assume come “significativo” un valore di p = 0.097, «ben oltre la soglia convenzionale di significatività statistica (p < 0.05)», spiega Bucci, che definisce la pubblicazione «metodologicamente scorretta» nell’interpretare i risultati.

Il Professore segnala inoltre altri studi che interpretano come statisticamente significativo un valore al di fuori della soglia convenzionale e lavori che utilizzano trattamenti “individualizzati”, i quali confondono la possibilità di trarre conclusioni su rimedi specifici. Secondo l’analisi di Bucci, il numero reale di lavori solidi, indipendenti e favorevoli all’omeopatia tende rapidamente a zero esaminando i dettagli e la replicazione degli studi.

Omeopatia per affiancare e integrare le terapie convenzionali?

Riguardo all’uso clinico, Galeazzi suggerisce che l’omeopatia possa «affiancare» o «integrare» le terapie convenzionali. Bucci critica questa posizione, definendola l’affiancamento di un placebo alla terapia reale. Non si tratterebbe infatti di un atto neutro, in quanto occupa spazio mentale, rinforza credenze infondate e comporta il rischio che il paziente, in futuro, possa rifiutare terapie efficaci. Sul caso del bimbo morto di otite a seguito di una terapia esclusivamente a base di rimedi omeopatici, che sarebbe probabilmente sopravvissuto se il medico gli avesse prescritto subito l’antibiotico, Galeazzi chiarisce nell’intervista a La Stampa che «se un paziente arriva con sintomi importanti, la terapia antibiotica è necessaria […], semmai l’omeopatia si affianca».

Bucci utilizza l’esempio del Presidente di FIAMO sull’otite per evidenziare l’errore logico del «post hoc ergo propter hoc», poiché le otiti lievi spesso si risolvono spontaneamente, e somministrando un placebo si attribuisce erroneamente la guarigione a esso. Infine, Galeazzi ha suggerito che paesi come la Francia avrebbero ottenuto risparmi integrando l’omeopatia. Il Professore contesta questa informazione, spiegando che Parigi, al contrario, ha eliminato il rimborso dei preparati omeopatici a partire dal 2021, dopo che un’autorità sanitaria ha concluso che non esisteva sufficiente prova scientifica di efficacia. I risparmi sono derivati proprio dal taglio del finanziamento pubblico a trattamenti considerati inefficaci.

Conclusioni

In sintesi, le analisi critiche condotte dalla dottoressa Garavaglia e dal professor Bucci sui dati e le affermazioni a supporto dell’omeopatia portano a conclusioni coerenti coi report di importanti autorità sanitarie internazionali: non esistono prove affidabili derivanti da ricerche sull’uomo che dimostrino che l’omeopatia sia efficace nel trattare alcuna condizione di salute.

Tanto per citare una di queste fonti istituzionali, ricordiamo che nel 2015 venne pubblicato un report sull’omeopatia per conto del National Health and Medical Reseach Council, l’Istituto nazionale australiano di ricerca medica. Si trattava di un’ampia revisione sistematica dei 225 migliori studi sulla presunta efficacia dell’omeopatia. I ricercatori ne trassero conclusioni per niente incoraggianti. Concludono più precisamente che l’omeopatia «non dovrebbe essere utilizzata per trattare condizioni croniche e serie (o che potrebbero diventarlo)». 

Non vi sono condizioni di salute per le quali esista una prova affidabile che l’omeopatia sia efficace. I report concludono che le evidenze esistenti sono insufficienti e di bassa qualità, e che sono necessari studi ben progettati per confermare eventuali benefici osservati, che potrebbero altrimenti essere dovuti al caso o all’effetto placebo.

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