Il ritorno di Fabri Fibra: «Sanremo vuole rubare il seguito dei rapper ma non devono dare fastidio» – L’intervista


Si intitola Che gusto c’è il brano che segna il ritorno di Fabri Fibra e che anticipa Mentre Los Angeles brucia, fuori il prossimo 20 giugno. Undicesimo album di quello che nella percezione comune è il padre del rap italiano, l’icona per eccellenza, colui che è riuscito senza troppi compromessi ad imporsi a livello mainstream. Il pezzo vanta il featuring di Tredici Pietro, uno dei più talentuosi rapper di nuova generazione. Un mosaico di immagini per raccontare la sua visione del Paese, della realtà che viviamo, della società che abbiamo costruito, con tutti i suoi limiti e le sue contraddizioni. Open ne ha parlato con il rapper.

Cosa si deve aspettare il tuo pubblico da Che gusto c’è?
«Un mix tra una festa di piazza e un banger rap, tra un pezzo di Public Enemy e una festa di piazza».
Durante la composizione dei pezzi ti capita di pensare a quelli che vanno in classifica?
«Un giorno un tassista mi fa: “Tu sei il migliore, che fine hai fatto? Devi tornare e fare il culo ai trapper!”. Il rap è cambiato, so cosa fanno i rapper nuovi, però non voglio e non posso proprio mettermi a rifare quella cosa lì, perché non sarei credibile. È un po’ una trappola, perché se non lo faccio mi chiedono perché non lo faccio, ma se lo facessi mi direbbero “Tu devi fare altro, lascia fare la trap ai giovani e tu fai quello che hai sempre fatto”».
In Italia quando si pensa al rap il primo nome che viene in mente è Fabri Fibra. Senti la responsabilità di essere un’icona?
«Nel momento in cui torni con un disco, torna anche tutto quello che hai fatto, nel bene e nel male. È anche giusto: ho lavorato tanto per avere questa posizione, ma non porta a nulla in realtà. So che ho cresciuto più generazioni e questa cosa mi fa piacere, però non bisogna mai dare per scontata l’attenzione. Sento il peso di dover fare una cosa fatta bene perché ci tengo, non solo perché sono qua da tanto».
Che gusto c’è è un collage di immagini che raccontano l’Italia con una sottile linea di amara ironia. Tu affronti la vita con questo atteggiamento?
«L’ironia è la chiave per raccontare le cose, perché nella realtà, logicamente, le subisci come tutti. Vivo a Milano, quest’anno ho traslocato tre volte, vivo in un cazzo di appartamento che pago non puoi capire quanto, dove il 70% delle cose non funzionano, cade a pezzi. Però è Milano, la città della moda e delle opportunità, quindi paghi tanto. È logico che mi tira il culo, non ci trovo un senso in tutto questo, però cerco poi nei testi di raccontarlo in un’altra maniera. La bravura sta nel trovare una chiave ironica per raccontarlo. Però logicamente parti sempre da un’incazzatura».

Il tuo disco si intitolerà Mentre Los Angeles brucia: una rappresentazione della tua alienazione artistica?
«Mentre il mondo va a puttane, ognuno di noi continua con la propria vita. Mentre una città viene bombardata, mentre in certe parti del mondo i bambini muoiono di fame, ognuno di noi va avanti per la sua strada. Perché non riesci a realizzare, sommerso da così tante informazioni, quello che accade intorno a te? Perché ognuno di noi è talmente egocentrico, ma è proprio quell’egocentrismo che ti tiene in vita».
Quindi una sorta di senso di colpa intrinseco, cosa assai poco in voga nel rap machista e infallibile di oggi.
«Io sono all’undicesimo disco, quando hai 40, 45, 50 anni non puoi più dire le cose che dicevi a 20-30 anni. E quando hai 20 anni è giusto che tu dica cose da ventenne. Oggi il rap è il genere musicale che ha più riscontro commerciale e la facciata che piace di più è quella più estrema, più cinematografica: la bella vita, il crimine, fammi sognare, fammi vivere il film…Io sono un po’ più realista».
Sembra non ci sia interesse a dare un significato profondo alle proprie composizioni.
«I testi dei rapper di oggi hanno successo perché stanno raccontando cosa sta succedendo nel mondo. La crisi di valori è mondiale: c’è Donald Trump presidente degli Stati Uniti, che è la cosa più assurda che potessimo immaginare. A scalare, tutta questa mancanza di valori arriva anche nella musica, si rispecchia nei contenuti. Cioè, quando io sento questi testi dico “Cazzo, sento quello che vedo”».
A proposito di Trump, nel tuo ultimo Red Bull 64 bars in un verso dici: «Sanremo tratta i rapper come Trump Zelensky», me lo spieghi meglio?
«Parto dall’immagine della Casa Bianca, quando chiedono a Zelensky perché non indossa un abito. È un po’ come Sanremo tratta i rapper. Cioè Sanremo vuole rubare il seguito dei rapper, però non vuole il motivo per cui questi rapper hanno quel seguito. “Vieni qua, portaci i tuoi fan, aumentaci gli ascolti, ma non fare quello per cui questa gente ti segue. Questo è Sanremo, quindi fai la musica italiana, fai la canzone d’amore, vestiti bene, sii scontato e cerca di dare il meno fastidio possibile”. Questo intendevo. Per adesso non mi sembra che si stiano sposando bene Sanremo e i rapper».
Un paio di settimane fa è stata negata la laurea ad honorem a Marracash, che è anche un tuo amico. Cosa ne pensi e che valore poteva avere concedere una simile onorificenza a un rapper?
«Non credo il rifiuto sia legato a lui. Lo vedo come un attacco al rap in generale, che è comunque considerato un genere violento, scomodo, da censurare. Un genere non capito».
C’è una cosa, secondo te, che ancora non abbiamo ancora capito di Fabri Fibra?
«Speriamo più cose possibili, per continuare a farlo il più tempo possibile».