Ecco perché Giorgia Meloni vuole andare al seggio senza votare i referendum. La premier lo ha confessato ai suoi: «Scelta politica, e di rispetto istituzionale»


Ha fatto molto discutere e suscitato i commenti sarcastici di quasi tutte le opposizioni (c’è chi ha notato: «è come andare al ristorante per non mangiare»), ma la scelta del presidente del Consiglio Giorgia Meloni sul referendum dell’8 e del 9 giugno prossimi ha una spiegazione istituzionale oltre a quella politica più facile da capire. Il motivo per cui la premier il 2 giugno ha detto che si recherà al seggio, ma non ritirerà le cinque schede referendarie, è, secondo quello che lei stessa ha chiarito ai collaboratori, «di rispetto istituzionale» verso l’istituto del referendum. Andando al seggio ed evitando di dire ai suoi elettori di passare la giornata al mare come fece Bettino Craxi, la Meloni voleva dare il senso del valore dei referendum al di là di un loro utilizzo che lei ritiene strumentale. Proprio per questo la sua decisione di recarsi al seggio senza ritirare le schede è stata comunicata dalla presidente del Consiglio nel giorno del 79° anniversario del referendum istituzionale su repubblica o monarchia.
La scelta politica della premier è non fare passare i sì che per lei sono “dannosi”
Non ritirare le schede è invece la scelta politica della premier italiana. Che valuta come “dannosa” per l’Italia l’approvazione di tutti e cinque i quesiti proposti, e quindi sceglie pragmaticamente la via più efficace per non fare approvare i sì: quella dell’astensione, dove i contrari ai temi referendari si possono sommare a chi comunque non sarebbe andato a votare per puro disinteresse. È una scelta fatta più volte in passato da leader politici, dalla Chiesa italiana (referendum sulla procreazione assistita) e anche da presidenti del Consiglio in carica. L’ultimo a invitare esplicitamente all’astensione fu l’allora premier Matteo Renzi nel 2016 sul referendum delle trivelle, che secondo lui era «una boiata».
La polemica della Meloni sul centrosinistra che al governo non modificò quelle leggi
In questa scelta della Meloni pesa anche un’altra sua considerazione politica: i partiti schierati oggi per il sì sui 5 quesiti referendari sono stati per alcuni anni maggioranza di governo, esprimendo anche un loro premier (ad esempio Giuseppe Conte nel governo giallorosso). Avrebbero avuto il tempo e i numeri per modificare sia la legislazione sul lavoro che quella sulla cittadinanza italiana. Se l’avessero fatto con i numeri che avevano in Parlamento, ha sostenuto la premier con i suoi stretti collaboratori, «avrebbero evitato di fare spendere agli italiani 400 milioni per fare il loro lavoro».
Nel 2019 fu affondata da Pd e M5s la proposta che dimezzava i requisiti per la cittadinanza
Difficilmente quei governi di centrosinistra avrebbero in realtà potuto modificare il job act, avendo al loro interno Matteo Renzi e i suoi che all’epoca erano decisivi per la maggioranza giallorossa di Conte. Ma certamente la legge sulla cittadinanza avrebbe potuto essere cambiata in quel periodo, visto che tutti gli esponenti che oggi propongono il Sì al referendum facevano parte del Conte bis. In parlamento in quella legislatura c’era anche una proposta di legge che fra l’altro dimezzava da 10 a 5 anni il requisito per ottenere la cittadinanza italiana da parte degli stranieri extracomunitari. Era la proposta di legge n.105 a prima firma di Laura Boldrini e Pierluigi Bersani. Approdò in commissione il 24 ottobre 2018, e lì restò congelata perché al governo c’era Matteo Salvini. Caduto l’esecutivo gialloverde, la proposta iniziò ad essere esaminata il 3 ottobre 2019. Ma con calma: si decise prima di ascoltare in audizioni informali le associazioni di categoria. Quel testo, di cui era relatore in commissione il M5s Giuseppe Brescia, restò in naftalina per ben due anni e mezzo. Fu ripreso il 3 marzo 2022, e abbinato ad altre proposte sulla immigrazione. Brescia ne ricavò un testo unificato dove era scomparsa proprio la norma che dimezzava da 10 a 5 anni i requisiti per la cittadinanza. In assemblea quel testo arrivò il 29 giugno 2022. Ma non fu mai esaminato, per la brusca fine anticipata della legislatura.