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Referendum, parlano i riformisti. Sensi: «Una sconfitta bruciante. Preoccupa il perimetro ristretto del Pd: ora basta al campo stretto» – L’intervista

09 Giugno 2025 - 22:36 Sofia Spagnoli
filippo sensi referendum
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Il senatore dem: «Dopo il voto di oggi partirà un confronto interno. Servono nuove proposte e idee per migliorarci»

Ufficialmente affondato il referendum. I cinque quesiti referendari – uno sulla cittadinanza proposto da +Europa e quattro sul lavoro presentati dalla Cgil – non raggiungono la soglia minima necessaria per essere validi, fermandosi al 28,6% di partecipazione, incluso il collegio estero. Un dato ben al di sotto delle aspettative, ma che in molti avevano già previsto. Fin dall’approvazione dei quesiti da parte della Corte di Cassazione, il referendum aveva diviso la politica italiana, in qualche caso anche all’interno degli stessi partiti. È quello che è accaduto al Partito Democratico, dove i riformisti – l’ala più distante dalla segretaria Elly Schlein – hanno più volte ribadito la loro contrarietà ai quesiti proposti dalla Cgil, nonostante la segretaria invitasse a votare “sì”. Posizione ribadita in una lettera inviata a Repubblica poche settimane fa da alcuni dirigenti del Pd, tra i quali il senatore Filippo Sensi.

Senatore, vi aspettavate questo risultato?

«Beh, che il quorum fosse lontano sembrava piuttosto evidente, diciamo così. Ma il risultato del 30% (escludendo il voto estero ndr) rappresenta comunque una battuta d’arresto significativa, una sconfitta bruciante. Anche perché, durante la campagna, ci si aspettava forse un esito un po’ più vicino alla soglia del 50%, magari non il raggiungimento pieno, ma almeno di arrivare a un soffio. Quella di oggi è una sconfitta che è anche il frutto delle scelte del comitato referendario, in particolare sui quesiti dedicati al lavoro: una proposta tutta ripiegata all’indietro, ancorata al 2015, che non tiene conto delle sfide del lavoro di oggi».

Da parte di voi riformisti c’è sempre stata diffidenza su questo referendum. Quanto ha pesato sul dibattito interno la lettera a Repubblica?

«Quella lettera non voleva disincentivare gli elettori. Era solo una riflessione sui quesiti e sul fatto che, nell’ambito del Pd, ci sono culture, sensibilità, visioni diverse che convivono. Non voleva essere una fronda o una ridotta testimoniale».

È stato criticato anche l’utilizzo dello strumento referendario.

«Si. Noi siamo parlamentari, quindi abbiamo strumenti per poter mettere in campo delle riforme. Aspettare che sia un referendum a dare la spinta, invece di assumerci la responsabilità del nostro ruolo, rappresenta – per me – già una sconfitta».

Tornando al risultato di oggi. Alcuni suoi colleghi di partito parlano di “autogol”

«Se un sindacato chiama i cittadini a esprimersi su temi che ritiene prioritari, e questi scelgono di non andare a votare, è una sconfessione pesante. In fondo, la gente ha detto chiaramente: “Quello che ci avete proposto non ci interessa”».

Sicuramente una sconfitta anche per i cittadini che hanno votato. Ma anche per il Pd?

«Siamo un partito plurale, dove convivono opinioni diverse anche su temi importanti. Appiattirsi su un’unica posizione sarebbe asfittico. Se il Pd continua a mantenere il suo storico profilo, aspirando a guidare un paese che parla a tutti e non solo a una parte, allora rimane fedele alle ragioni per cui è nato».

Con «parlare a tutti» a cosa si riferisce?

«Il tema è: vogliamo andare noi al governo? Un governo che parli a tutti quanti? Questo mi preoccupa. Siamo in grado di costruire un’alternativa che coinvolga tutti i partiti di minoranza? E dico, tutti, non soltanto una parte. E poi, siamo in grado di avere un’elaborazione all’altezza di quello che siamo? Siamo una grande forza di governo, quindi perché farsi bastare un’alleanza a tre? O perché limitarci ai quesiti posti dalla Cgil, quando c’è un mondo intorno da rappresentare?».

Ci faccia degli esempi.

«Per esempio sulla questione Gaza: invece di riuscire a organizzare un’unica manifestazione unitaria, ne abbiamo fatte due, una a Milano e una a Roma. Noi (riformisti ndr) abbiamo scelto di partecipare a entrambe, proprio per costruire ponti. È così che si costruisce qualcosa di solido: insieme».

Alle comunali le alleanze hanno abbastanza funzionato…

«Siamo un partito di governo, non perché inseguiamo poltrone, ma perché crediamo di poter cambiare le cose, di guidare i processi, e lo dimostriamo avendo già governato e governando tuttora. Abbiamo tutte le capacità per vincere le prossime elezioni politiche, basta non essere sbilanciati troppo da una parte, e non considerare il nostro perimetro limitato solo ad Avs e al M5S. Dobbiamo rimanere aperti, attenti e pronti al dialogo. Non è facile, ma la politica è anche fatta di impegno e fatica».

Schlein esce sconfitta dal risultato del referendum?

«Guardi, non è tanto una questione di quanto Schlein sia indebolita o meno. Credo che lei faccia bene a ripetere uno dei suoi mantra: essere “testardamente unitaria”. Prendo sul serio questa sfida. Essere testardamente unitaria significa guardare alla coalizione che dobbiamo costruire, senza accontentarci di un perimetro troppo stretto, passando dal campo largo al “campo stretto” del tipo “ci bastiamo così”».

Ma quindi cosa farete ora? Ci sarà un punto di riflessione condiviso?

«Tutto si può dire del Pd tranne che non parliamo. Anzi. Che ci sia un confronto e un dialogo sul profilo del Pd in vista della sfida di Giorgia Meloni e Salvini è doveroso. Ci sarà un confronto su questi temi. Il voto di oggi segna l’avvio di una stagione in cui le proposte e le idee dovranno aiutarci a migliorarci».

Un congresso?

«No questo no».

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