«Noi produciamo terre rare riciclando rifiuti, reindustrializzare il paese (e l’Europa) è possibile», parla il presidente di Iren, Luca Dal Fabbro


A guardare i titoli dei giornali sembrerebbe che il rischio di conflitti che aleggia sull’Europa e il raffreddamento delle relazioni internazionali (dalla Russia, agli Stati uniti alla Cina, all’Iran) non abbiano come logica conclusione che la riduzione del ruolo europeo nel mondo. Il presidente del gruppo Iren, Luca Dal Fabbro, ha dedicato a questo argomento il suo ultimo libro, Proteggere il futuro, edito da Rubettino, e non sembra di questo avviso. La prospettiva, spiega a Open, è certamente cambiata: «Fino a qualche anno fa potevamo contare sulla pax globale, le catene di fornitura, di Cina, Europa e resto del mondo, erano interfacciate. Oggi queste catene si sono ridotte con la deglobalizzazione e con il rischio che ci possano essere nuove tensioni, da Taiwan al golfo di Suez, senza neppure citare i conflitti più vicini a noi. Se l’offshoring è stato il simbolo della globalizzazione, con la nuova politica globale, impersonata in particolare da Donald Trump, l’Europa deve dotarsi di una strategia di onshoring, per non diventare un mercato solo di sbocco, di soli consumatori. Come scrivo nel libro: vogliamo rimanere erbivori o essere onnivori?»

Siamo minacciati dai conflitti, dal rischio di dazi, davvero pensa ci sia una strada di crescita in un contesto del genere?
«Dobbiamo avere una visione prospettica del futuro. Una delle battaglie che possiamo vincere è la reindustrializzazione del paese e dell’Europa. Ovviamente per farlo bisogna guardare in avanti, non solo a quello che siamo stati e che siamo. Ad esempio: noi di Iren abbiamo un impianto per produrre terre rare dai rifiuti. Se ne possono fare altri per recuperare palladio, zinco e rame, tutti materiali fondamentali. L’Italia è la seconda potenza industriale in Europa, siamo i terzi esportatori mondiali dopo America e Cina, ma tutto questo si basa sull’acquisto di materiali fondamentali. Un terzo della nostra produzione industriale dipende da una ventina di materiali che importiamo, da Africa e Sud America. Molti possono essere recuperati dai rifiuti: il palladio è recuperato dalle vecchie schede elettroniche, il nostro impianto di Arezzo lo fa. Questo accorcia la catena, riduce i costi, il rifiuto invece di essere un problema lo utilizzo e ne faccio una materia prima».
Produrre energia se non si hanno risorse proprie sembra più complicato…
«Si possono fare molte cose. In Italia abbiamo 50/60 mila megawatt di solare che possiamo fare in più, e altrettanto sostituendo le pale eoliche con nuove pale e i pannelli solari con altri di ultima generazione. Sono 100 mila megawatt con costi di produzione bassi, rispetto al gas. Che ovviamente ci serve per fare la modulazione della produzione energetica, ma il gas infatti rimane. Si può fare con poco, le assicuro».
Lei sembra uno dei pochi imprenditori non contrari al Green deal, va bene cosi allora?
«No, è da riorientare, non possiamo pensare che eliminiamo il motore endotermico nel 2035 senza colonnine di ricarica, produttori competitivi o fabbriche di batterie. O cominciamo a investire in ricerca, proposta che si fa nel libro, o è una scommessa persa. Non essere nel mondo della transizione digitale è un vulnus per il nostro futuro».
Il governo fa abbastanza in questo senso?
«Da parte del governo ma anche di tutte le forze politiche, c’è concordia sul fare. La politica della decrescita felice di alcuni precedenti governi è ormai lontana. Il Piano Mattei, in particolare, mostra la voglia di fare cose, di portare sviluppo, scaricando proiezioni industriali. Quello che manca al paese è una visione industriale futura dell’Europa che deve investire in digitale, nuova tecnologia, riciclo e supportare il Piano Mattei per le risorse».
Per farlo ci vogliono anche dei soldi…
«Basterebbe fare bond: si parla di bond per la difesa, ma non ci si assicura la pace con i missili. Dove passano le merci non passano i carri armati. Io penso che queste guerre nascondano ragionamenti egemonici, l’Europa ha dimenticato di avere una visione di sé industriale e politico militare. Del resto, e questo riguarda l’Italia, se avessimo una visione non avremmo perso il nostro ruolo in Libia e i francesi non lo avrebbero perso in Niger. Si pensi alla Mattei, appunto: portare sviluppo nei paesi che per noi sono strategici, lasciamo prosperità in cambio di risorse. Come spiega la ricerca che Iren ha commissionato all’European house Ambrosetti, un terzo del pil italiano dipende direttamente da 7/8 materiali critici: impossibile perderli».
Il presidente di Confindustria Orsini ha recentemente lamentato i pochi passi avanti fatti sul costo dell’energia, lei che ne pensa?
«Non è colpa della politica, per la verità. Abbiamo ereditato un mix energetico svantaggioso. La Spagna ha un prezzo dell’energia più basso e infatti cresce. Bisogna aumentare le rinnovabili il più possibile:, usando l’energia da solare e con il repowering dell’esistente potremmo ridurre in modo considerevole i costi, dando anche ristoro alle famiglie».
Iren, anche solo per la sua provenienza geografica tra Torino, Genova e l’Emilia sa bene quanto i cittadini possano essere preoccupati dall’aumento di impianti che rischiano di alterare l’immagine del territorio, con pannelli e pale…
«Lo comprendo perfettamente ma ci sono tante aree ex industriali, ex militari, aree meno pregiate, desertiche che si possono usare. Per fare quello che dico basta il 2% del territorio nazionale. Certo non vogliamo rovinare il nostro territorio, la bellezza è una cosa fantastica ma senza energia muore».
Foto in evidenza di Karsten Würth su Unsplash