Paura di volare, gli italiani sempre più spaventati dagli incidenti aerei. Cosa succede al cervello e quali sono le terapie efficaci


L’arrivo della stagione estiva segna spesso l’inizio delle partenze verso mete turistiche e viaggi già prenotati da tempo. Se si tratta di voli aerei però non tutti affrontano l’idea di una vacanza con serenità: per una fetta consistente della popolazione italiana l’idea di volare è fonte di disagio, se non di vera e propria angoscia.
Secondo Doxa, il 53% degli italiani dichiara di provare ansia durante il volo, e circa il 10% evita del tutto l’aereo per paura. Una fotografia confermata anche a livello internazionale: il National Institute of Mental Health statunitense stima che circa il 25% degli adulti sperimenti un certo grado di ansia legata al volo, mentre secondo il Fear of Flying Survey 2023 il 6,5% dei viaggiatori rinuncia sistematicamente a volare.
Negli ultimi mesi, alcuni episodi di cronaca – seppur statisticamente rari – hanno contribuito ad alimentare questi timori: dal tragico schianto dell’aereo Air India Express del giugno 2025, al caso del portellone che si è staccato in volo su un Boeing 737 Max 9 negli Stati Uniti. Notizie che, rilanciate e amplificate dai media, possono rafforzare la percezione soggettiva del pericolo, anche se il trasporto aereo resta tra i più sicuri al mondo.
Ma al di là dell’attualità, la paura di volare è una condizione ben studiata dalla medicina e dalla psicologia. Si chiama aviophobia (o aerofobia) ed è una vera fobia specifica, che oggi può essere affrontata con strumenti scientificamente validati.
Che cos’è l’aviofobia
In ambito clinico, la paura di volare è classificata come fobia specifica e rientra tra i disturbi d’ansia descritti nel Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali, quinta edizione pubblicato dall’American Psychiatric Association (APA), ovvero l’associazione nazionale degli psichiatri degli Stati Uniti.
Il termine corretto è aviophobia (o aerofobia) e indica una paura intensa, persistente e irrazionale nei confronti del volo o di tutto ciò che vi è associato: dal pensiero di salire su un aereo, al rumore del motore, fino all’esperienza di decollo, atterraggio o turbolenze.
La fobia si manifesta su tre livelli:
- Cognitivo: presenza di pensieri negativi ricorrenti e scenari catastrofici (“l’aereo cadrà”, “perderò il controllo”), con un forte senso di impotenza.
- Fisiologico: attivazione del sistema nervoso autonomo, con tachicardia, respiro corto, sudorazione, nausea, tremori, tensione muscolare, senso di vertigine.
- Comportamentale: evitamento sistematico del volo, oppure strategie di “sopravvivenza” (uso di farmaci, richiesta di rassicurazioni, viaggi solo con accompagnatori)
In alcuni casi, l’aviophobia è isolata, ma può anche essere associata ad altri disturbi, come:
- disturbo di panico (soprattutto se la persona ha avuto un attacco durante un volo)
- disturbo d’ansia generalizzato
- disturbo post-traumatico da stress (PTSD)
- claustrofobia o acrofobia.
Nei bambini o negli adolescenti può manifestarsi in modo atipico, con mal di pancia, irritabilità, pianto e resistenza alla partenza. Negli adulti è spesso accompagnata da tentativi razionali di “tenere tutto sotto controllo”, che però possono aumentare paradossalmente l’ansia.
La differenza tra ansia del volo e fobia
Un po’ di nervosismo prima di volare è del tutto normale. Chi non ha mai sentito un leggero nodo allo stomaco al momento del decollo, o un’accelerazione del battito durante una turbolenza improvvisa? La mente si attiva, immagina scenari, cerca il volto rassicurante di un assistente di volo. Poi, nella maggior parte dei casi, si torna a leggere, a guardare un film, e la tensione si dissolve con l’atterraggio.
Ma per alcune persone non è così semplice. La paura prende forma molto prima del volo, giorni o settimane prima. Basta sentire il rumore di un motore, vedere un aereo in cielo, o ricevere una proposta di viaggio per attivare un cortocircuito interiore fatto di pensieri ossessivi, sintomi fisici e strategie per evitare a ogni costo di trovarsi su quell’aereo.
In questo caso non si parla più di tensione fisiologica: si entra nel territorio della fobia specifica, una condizione psicologica ben definita che ha criteri diagnostici precisi. A stabilirli è il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali: per parlare di aviophobia vera e propria devono esserci almeno elementi chiave che riguardano:
- Paura marcata e sproporzionata rispetto al pericolo reale.
- Evitamento sistematico dell’oggetto o della situazione temuta, in questo caso il volo
- Persistenza dei sintomi per almeno sei mesi.
La paura provoca sofferenza clinicamente significativa o interferisce con la vita quotidiana (lavoro, relazioni, tempo libero).
Anche il NICE (National Institute for Health and Care Excellence), ente britannico che elabora linee guida cliniche per il sistema sanitario, conferma che una fobia specifica come quella del volo va diagnosticata solo quando è disfunzionale e non può essere spiegata da una normale reazione di stress.
C’è poi un segnale che accomuna quasi tutti i pazienti: l’ansia anticipatoria. Non arriva in volo ma molto prima. Comincia al momento della prenotazione, cresce con il passare dei giorni, esplode in aeroporto. E spesso porta con sé un corteo di sintomi fisici: mal di stomaco, nausea, tremori, insonnia, difficoltà a concentrarsi.
Per gestirla, molti mettono in atto strategie di compensazione: evitano di parlare del viaggio, prenotano solo voli notturni, si siedono vicino all’uscita o assumono farmaci ansiolitici in autonomia. Altri rinunciano del tutto a partire.
Capire dove finisce l’ansia normale e dove comincia la fobia è il compito di uno psicologo clinico o psichiatra che attraverso un colloquio approfondito o questionari specifici valuta la gravità del disturbo. Riconoscerla non serve solo a dare un nome alla paura ma rappresenta il primo passo per affrontarla e con gli giusti strumenti.
Quando il cervello interpreta il viaggio come una minaccia
La paura di volare non è mai del tutto casuale. Spesso affonda le sue radici in una combinazione di vulnerabilità emotive personali, esperienze passate e meccanismi di apprendimento. Non tutti la sviluppano allo stesso modo, ma nella maggior parte dei casi si possono riconoscere tre grandi categorie di cause: quello che ci predispone, quello che accende la miccia, e quello che mantiene accesa la paura nel tempo.
Le predisposizioni: chi è più a rischio?
Ci sono soggetti più inclini di altre a sviluppare questa fobia. Per esempio chi, per indole o storia personale, è più sensibile all’ansia o ha una tendenza al controllo molto marcata. In queste persone, trovarsi in un aereo, senza possibilità di decidere cosa fare o dove andare, può scatenare un senso di disagio profondo.
Anche la presenza di altre paure gioca un ruolo: chi soffre di claustrofobia (la paura degli spazi chiusi), di acrofobia (la paura delle altezze), o di disturbi d’ansia generalizzati può essere più vulnerabile. A volte quindi la fobia si inserisce in un quadro psicologico più ampio, già segnato da attacchi di panico o episodi di ansia intensa.
L’evento che innesca la paura
In molti casi, l’aviophobia nasce dopo un episodio concreto. Un volo particolarmente turbolento, un atterraggio difficile o addirittura un attacco di panico vissuto a bordo. Da quel momento il cervello è come se imparasse ad associare l’aereo a una minaccia, nonostante razionalmente si sia in grado di capire che volare è sicuro.
Si tratta di un meccanismo che prende il nome di “condizionamento”: un’esperienza vissuta in uno stato emotivo forte, paura, disagio, pericolo, si imprime nella memoria e viene riattivata ogni volta che ci troviamo in una situazione simile.
Ci sono anche casi in cui però non è possibile individuare un evento scatenante preciso. La paura può crescere in modo graduale, alimentata da racconti, notizie allarmanti, immagini forti viste in tv o online. Si chiama apprendimento vicario: anche solo osservare o ascoltare la paura degli altri può influenzare le nostre emozioni.
Come la paura si mantiene nel tempo
Una volta che la fobia si è instaurata, tende ad autoalimentarsi. Più si evita di volare, più si rafforza la convinzione che il volo sia pericoloso. È un circolo vizioso: l’evitamento fornisce un sollievo immediato, ma a lungo andare rende la paura più resistente. Questo succede perché il cervello non ha mai la possibilità di sperimentare che, nella realtà, il volo non è così minaccioso come si immagina.
Anche certi comportamenti protettivi, come volare solo accompagnati, assumere farmaci per calmarsi, controllare ossessivamente le condizioni meteo o le statistiche degli incidenti, possono sembrare utili, ma in realtà mantengono viva l’idea che l’aereo sia qualcosa di pericoloso da affrontare solo con precauzioni straordinarie. Una volta sviluppata quindi la fobia tende ad autoalimentarsi. Ogni evitamento, ogni viaggio cancellato, ogni scusa trovata per non salire a bordo, rafforza l’idea di minaccia.
Cosa succede nel cervello quando si ha paura di volare
Finché la paura resta una sensazione vaga, può sembrare solo un’emozione da sopportare. Ma quando si manifesta con forza, respiro corto, cuore in gola, senso di oppressione, è segno che qualcosa di molto preciso sta accadendo nel cervello. Non si tratta di semplice agitazione: è un intero sistema neurofisiologico che entra in azione, coinvolgendo in pochi secondi emozioni, pensieri e corpo.
Il primo snodo fondamentale di questa reazione è l’amigdala, una piccola struttura a forma di mandorla, situata nella profondità del cervello. L’amigdala ha il compito di riconoscere segnali emotivi e potenzialmente pericolosi, anche se questi non provengono da una minaccia concreta. È una sentinella instancabile e velocissima: può attivarsi prima ancora che ne siamo consapevoli, in risposta a un’idea, a una memoria, a una previsione.
Quando percepisce un segnale che interpreta come rischioso, l’amigdala invia un impulso all’ipotalamo, una piccola regione alla base del cervello con funzioni vitali: regola la temperatura corporea, il ritmo sonno-veglia, la fame e, in questo caso, le risposte fisiologiche allo stress. È proprio l’ipotalamo che, attivandosi, mette in moto il sistema nervoso simpatico, cioè il ramo del sistema nervoso che prepara il corpo a reagire in caso di emergenza.
Questa attivazione provoca il rilascio di ormoni dello stress, in particolare adrenalina e noradrenalina, che generano le reazioni fisiche caratteristiche della paura: battito cardiaco accelerato, respiro corto, sudorazione, tensione muscolare, nausea, vertigini. È quella che in biologia si chiama risposta “lotta o fuga”: un meccanismo antico e potente che ci permette di sopravvivere in presenza di minacce reali. Ma su un aereo, dove non c’è nulla da cui fuggire o contro cui lottare, questa attivazione diventa fonte di malessere.
A questo punto dovrebbe entrare in gioco un’altra parte del cervello: la corteccia prefrontale, e cioè l’area responsabile del pensiero razionale, della valutazione logica e della regolazione delle emozioni. In condizioni normali, la corteccia prefrontale riesce a “parlare” all’amigdala, inviando un messaggio di calma del tipo “non c’è alcun pericolo, puoi spegnere l’allarme”.
Negli individui con aviophobia questo dialogo risulta sbilanciato: l’amigdala è iperattiva, mentre la connessione con la corteccia prefrontale è meno efficace. Di conseguenza, l’emozione prende il sopravvento sulla logica e le rassicurazioni razionali non bastano più a calmare la reazione di paura.
Se l’attivazione continua a crescere, può sfociare in un attacco di panico: un’ondata improvvisa di terrore che si manifesta con sintomi intensi e spesso spaventosi, come senso di soffocamento, tachicardia, sudorazione, tremori, senso di distacco dalla realtà o paura di morire. Sebbene questi sintomi siano fisicamente innocui e destinati a risolversi spontaneamente, l’esperienza soggettiva può essere così destabilizzante da lasciare una traccia profonda nella memoria emotiva.
Comprendere cosa accade nel cervello durante questi episodi non serve solo a livello teorico ma può aiutare a normalizzare l’esperienza, a ridurre il senso di colpa o vergogna e soprattutto a capire che si tratta di una risposta biologica, di certo potente ma modificabile. Proprio su questi circuiti cerebrali oggi si concentrano oggi le terapie più efficaci per superare la paura di volare.
Quando la cronaca alimenta la paura: l’effetto delle notizie sugli incidenti
Anche se volare è statisticamente uno dei mezzi più sicuri, con una probabilità di incidente gravissimo pari a circa 1 su 11 milioni di voli, la percezione soggettiva del rischio può essere distorta, soprattutto in seguito a episodi di cronaca che hanno grande impatto emotivo. È il caso del tragico schianto dell’Air India Express del giugno 2025 o dell’incidente sul Boeing 737 Max 9 avvenuto negli Stati Uniti, in cui un portellone si è staccato in volo poco dopo il decollo. Eventi rari ma mediaticamente molto visibili che condizionano la percezione di un fenomeno e ne amplificano l’impatto emotivo. In psicologia cognitiva questo meccanismo è noto come “bias di disponibilità”: tendiamo a sovrastimare la probabilità che un evento accada se riusciamo a ricordare facilmente un esempio recente o impressionante. Le immagini di un aereo danneggiato o le testimonianze cariche di paura diventano immediatamente accessibili alla memoria e finiscono per falsare la nostra valutazione razionale del rischio.
Questo effetto è ancora più marcato in chi già convive con un’ansia latente verso il volo. Le notizie si saldano a convinzioni preesistenti come quella della pericolosità dell’aereo o del fatto di non potersi fidare della tecnologia, finendo così per rafforzare il circuito della fobia, rendendo più difficile distinguere tra paura e pericolo reale.
Inoltre, la modalità con cui le notizie vengono comunicate gioca un ruolo cruciale. L’uso di immagini spettacolari, titoli allarmistici o ricostruzioni drammatiche, anche se legittimo dal punto di vista giornalistico, può amplificare l’effetto emotivo, in particolare nei soggetti più sensibili o con predisposizione ansiosa.
Comprendere questi meccanismi non significa minimizzare l’impatto degli incidenti aerei reali né negare il diritto alla preoccupazione, ma aiuta a contestualizzare la paura, distinguendo tra ciò che “colpisce” e ciò che “accade davvero”. Un tassello fondamentale nei percorsi terapeutici per superare l’aviophobia.
Come si affronta la paura di volare: terapie e strumenti a disposizione
La buona notizia è che la paura di volare non è una condanna. Anche quando è intensa e radicata, può essere affrontata e ridotta in modo significativo grazie a percorsi psicologici mirati e, se necessario, con il supporto di terapie farmacologiche. Negli ultimi anni le neuroscienze e la psicologia clinica hanno messo a punto strumenti sempre più efficaci, in grado di aiutare chi soffre di aviophobia a riconquistare la libertà di viaggiare.
Terapia cognitivo-comportamentale (CBT)
Il trattamento più validato scientificamente è la terapia cognitivo-comportamentale, conosciuta anche con l’acronimo CBT (Cognitive Behavioral Therapy). Si tratta di un approccio psicologico strutturato, centrato sul presente, che mira a modificare i pensieri disfunzionali legati al volo e a ristrutturare le credenze irrazionali che alimentano la fobia.
In linea generale durante il percorso di terapia il paziente impara a riconoscere e mettere in discussione i propri pensieri automatici negativi; a monitorare le reazioni fisiologiche e imparare a gestirle con tecniche di rilassamento; ad affrontare gradualmente situazioni temute in modo sicuro e guidato.
La CBT ha dimostrato un’alta efficacia nel trattamento delle fobie specifiche e i benefici possono manifestarsi già dopo poche settimane. Una revisione del Journal of Anxiety Disorders riporta che l’80–90% delle persone che seguono un percorso CBT specifico per l’aviophobia ottiene una significativa riduzione dell’ansia, e molti riescono a mantenere i guadagni anche a distanza di anni.
Uno studio condotto su 115 partecipanti ha dimostrato che, dopo un ciclo di otto sessioni, la maggior parte iniziava a volare con meno ansia e continuava a usare spontaneamente le tecniche apprese. A 2,3 anni di distanza, soprattutto dopo eventi di stress collettivo come gli attentati dell’11 settembre, i risultati venivano mantenuti.
L’aiuto della realtà virtuale
Un elemento centrale della CBT è l’esposizione graduale, una tecnica che consiste nel esporsi in modo controllato e progressivo agli stimoli temuti, fino a desensibilizzare la risposta di paura. L’obiettivo è spezzare il circolo vizioso tra evitamento e rinforzo della fobia.
L’esposizione può avvenire tramite immaginazione (immaginare la scena di imbarco, decollo, volo), dal vivo (visitare un aeroporto, salire su un aereo senza volare, affrontare un breve volo), oppure con l’ausilio di tecnologie immersive.
Quest’ultima soluzione è sempre più diffusa negli ultimi anni e consente di simulare con grande realismo tutte le fasi del volo, dall’imbarco al decollo, dalle turbolenze all’atterraggio, in un ambiente sicuro, controllato e terapeutico. Il paziente indossa un visore e, accompagnato da uno psicologo specializzato, affronta gli stimoli che scatenano la sua paura.
Gli studiosi spiegano come la VR Therapy sia in grado di produrre effetti comparabili all’esposizione reale, con il vantaggio di poter “dosare” il livello di intensità e ripetere l’esperienza più volte, senza vincoli logistici.
Tecniche di regolazione fisiologica
In parallelo al lavoro cognitivo ed espositivo, è spesso utile apprendere tecniche di autoregolazione del corpo, per contenere i sintomi fisici dell’ansia:
- respiro diaframmatico, per rallentare il battito e calmare il sistema nervoso;
- rilassamento muscolare progressivo, utile nei momenti di tensione fisica;
- mindfulness, per riportare l’attenzione sul momento presente e ridurre il rimuginio anticipatorio.
Queste strategie non eliminano la paura, ma la rendono più gestibile, permettendo alla persona di affrontare il volo senza sentirsi in balia del panico.
Farmaci: quando servono davvero
In alcuni casi, soprattutto all’inizio di un percorso terapeutico o in presenza di sintomi molto intensi, può essere indicato l’uso temporaneo e controllato di farmaci, prescritti da un medico specialista.
Le opzioni più comuni sono:
- ansiolitici a breve durata d’azione (come le benzodiazepine), che riducono l’ansia acuta;
- beta-bloccanti, che attenuano i sintomi fisici come tachicardia e tremori;
- antidepressivi SSRI, nei casi in cui la fobia sia associata ad altri disturbi d’ansia.
È importante sottolineare che i farmaci non curano la fobia ma possono offrire un sollievo temporaneo, utile per affrontare situazioni specifiche o affiancare il percorso psicoterapeutico.
Volare è diventato più pericoloso negli ultimi anni?
Nel mondo iperconnesso dell’informazione continua, ogni incidente aereo, anche se raro, viene raccontato con grande evidenza mediatica, amplificando l’impatto emotivo delle immagini e delle testimonianze. È comprensibile quindi che molte persone si chiedano se volare sia diventato, negli ultimi anni, più pericoloso.
La risposta, però, è chiara: no, volare non è diventato più pericoloso. Secondo il report 2024 di Cirium, società internazionale di analisi del traffico aereo, lo scorso anno si sono verificati quattro incidenti mortali su oltre 40 milioni di voli commerciali: un dato perfettamente in linea con la media degli ultimi cinque anni e ben inferiore ai livelli degli anni 2000, quando si registravano mediamente 8-9 incidenti gravi all’anno.
Anche l’IATA, l’International Air Transport Association, che rappresenta circa 300 compagnie aeree nel mondo, conferma questa tendenza. Nel suo ultimo report sulla sicurezza, ha calcolato un tasso di 0,06 decessi per milione di voli nel 2024, inferiore alla media quinquennale di 0,10. In altre parole, statisticamente servirebbero oltre 16 milioni di voli prima che si verifichi un incidente fatale.
Lo studio del MIT, (Massachusetts Institute of Technology), che ha analizzato i dati relativi al periodo 2018–2022, ha stimato poi che la probabilità di decesso per un singolo passeggero è di circa 1 su 13,7 milioni di imbarchi. Per fare un confronto, negli anni Settanta la stessa probabilità era 1 su 350.000: un miglioramento di oltre trenta volte, grazie a decenni di innovazione tecnologica, manutenzione rigorosa, automazione dei sistemi e formazione avanzata degli equipaggi.
Persino nei Paesi con standard già molto elevati, come quelli europei e nordamericani, il rischio attuale stimato è ancora più basso: circa 1 su 100 milioni per volo per passeggero.
La percezione soggettiva può essere alterata dalle notizie e dal linguaggio spettacolare della cronaca ma i dati oggettivi parlano chiaro. Oggi volare resta di gran lunga il mezzo di trasporto più sicuro al mondo, più sicuro persino dell’auto, del treno o della nave. E questo dato può rappresentare, per chi vive con l’ansia del volo, un primo punto di ancoraggio alla realtà.