La Cassazione: «Giusto licenziare un ultras se i reati recano disvalore morale» anche fuori dal lavoro


È legittimo licenziare un dipendente, anche per reati commessi al di fuori del contesto lavorativo. Se questi «recano disvalore morale alla sua persona». A stabilirlo è la Cassazione. Il Palazzaccio ha respinto il ricorso di un ex operaio catanese appartenente a un gruppo ultras, condannato a otto mesi per «oltraggio alle forze di polizia di stato e istigazione a commettere delitti di resistenza e delitti contro la persona», oltre che «per avere offeso con più azioni anche in tempi diversi l’onore e il prestigio di un pubblico ufficiale».
La vicenda
L’uomo, dopo la condanna definitiva, era stato licenziato dall’azienda per «un’azione commessa non in connessione con lo svolgimento del rapporto di lavoro, che ha leso la sua figura morale». Aveva impugnato il provvedimento, ma sia il giudice di primo grado sia la Corte d’appello di Catania avevano dato ragione al datore di lavoro. Da qui il ricorso in Cassazione, anch’esso respinto.
La gravità dei reati
Per gli Ermellini, i reati commessi sono stati «gravi oggettivamente e soggettivamente» per le «fattispecie incriminatrici violate» e per «il concreto disvalore penale che deriva dalla natura delle persone offese (pubblica amministrazione, corpo di polizia, pubblico ufficiale) e dei beni giuridici tutelati (dignità e prestigio del corpo di polizia e del singolo pubblico ufficiale)». Un peso ulteriore è derivato dal protrarsi nel tempo delle azioni dell’uomo, quasi due anni, e anche dal contesto in cui sono avvenute.
La Cassazione ha infatti ritenuto «particolarmente aggressivo» il contesto delle tifoserie calcistiche. La Cassazione ricorda anche le frasi pronunciate dall’uomo: «sbirri a morte» e «meglio mille sbirri uccisi che un ultras diffidato». Espressioni che, scrivono i giudici, confermano «gravi fatti di negazione di valori etici e morali e lesivi di interessi meritevoli di tutela penale». Per questo il licenziamento è «pienamente giustificato, anche se si tratta di reati commessi al di fuori dell’attività lavorativa, poiché è innegabile la compromissione dell’elemento fiduciario».
La comunicazione tardiva
Un altro dei motivi di ricorso riguardava la presunta «tardività della contestazione disciplinare». I fatti risalivano al 2010, mentre il licenziamento era arrivato nel novembre 2016. Ma anche qui la Cassazione ha respinto le obiezioni: il datore di lavoro, secondo i giudici, aveva sospeso la sua valutazione nell’attesa che si concludesse il procedimento penale. Anzi, il lavoratore si era anche attardato nel comunicare al titolare l’esito del procedimento: «sebbene la sentenza della Corte di Appello penale sia intervenuta a dicembre 2012, il datore di lavoro non ne è venuto a conoscenza prima del mese di ottobre 2016».