Elisa True Crime a Open: «Quando racconto alcuni casi mi viene da piangere. Garlasco? Non ne parlo. Lo fanno già in troppi» – L’intervista


Una madre appassionata di crime e un nonno cantastorie, il ricordo di una maestra che non ha saputo comprendere le sue fragilità, l’ombra di una relazione tossica e la fame di vivere all’estero. Mai avrebbe pensato che si sarebbe ritrovata a ringraziare il Covid. Perché è da quel momento di estrema difficoltà che ha deciso di aprire un canale YouTube, che oggi ha superato 1,4 milioni di iscritti. «Oggi sono ancora più felice di quello che faccio perché non era proprio nei miei piani». A parlare è Elisa De Marco, alias Elisa True Crime, che a Open ha raccontato luci e ombre di un successo insperato. «Ho iniziato a lavorare da quando ho potuto per necessità fondamentalmente, perché vengo da una famiglia molto umile e vivevo in una casa molto piccola, non c’era letteralmente più spazio per me. Ma non sono mai stata particolarmente ambiziosa». Eppure oggi Elisa è il volto e la voce, ormai noti soprattutto dai più giovani, del podcast e canale YouTube aperto nel 2020, Elisa True Crime, e di Partners in (True) Crime, il format realizzato con il marito Edoardo Coniglio, che è tornato con nuovi episodi, confermando di fatto il successo della prima stagione. Non paga, Elisa ha messo a segno anche tre libri. Il fil rouge è, appunto, la cronaca nera. Elisa, infatti, racconta casi che l’hanno particolarmente «scioccata», come ama dire nell’intro dei suoi podcast. Lo fa da Las Palmas, dove vive (oggi ma domani chissà), insieme al marito, con cui da qualche anno condivide anche la vita professionale. «Lavorare insieme ad oggi è bello. All’inizio chiaramente ci stiamo dovuti un po’ adattare l’uno all’altro. Nella vita privata ci siamo messi dei paletti». Ci ha raccontato com’è capitato tutto. Dall’inizio.

Raccontaci la tua storia, come ti sei avvicinata al crime?
«Mi sono avvicinata al crime già da bambina per colpa di o grazie a mia mamma, a seconda dei punti di vista. La vera appassionata è lei, ha sempre guardato Chi l’ha visto, già quando era incinta di me, quindi questa sua passione deve essere passata un po’ dal cordone ombelicale. E poi crescendo ho sempre un po’ respirato questa sua grande curiosità non solo verso i casi di cronaca ma anche verso l’horror. Negli anni ho cominciato ad appassionarmi anche io e ne discutevo più che altro con lei, perché paradossalmente sono sempre stata circondata da persone che non avevano questa curiosità. Nemmeno mio marito, Edoardo Coniglio, all’inizio. Poi varie circostanze mi hanno portato a vivere in Cina con lui, prima ad Hong Kong e poi a Shanghai. Ho sempre avuto questa fame di viaggiare e di vivere all’estero. Peccato che dopo una settimana che eravamo arrivati a Shanghai è scoppiato il Covid e io mi sono ritrovata a non poter neanche sperare di ottenere un visto lavorativo, che in Cina è già di per sé difficile. A quel punto mi sono diciamo autorizzata a fermarmi, perché non potevo fare diversamente, e ho dato sfogo a quella che è sempre stata la mia passione. È stato allora che ho aperto il canale, Elisa True Crime. Ho iniziato a realizzare dei video in modo molto spontaneo, con il cellulare seduta per terra senza microfono, in modo molto casereccio. Il canale è esploso: nel giro di otto mesi avevo centomila iscritti».
C’è stato un caso, un episodio, o magari un periodo della tua vita che in qualche modo ti ha influenzata facendoti avvicinare al crime?
«Questa passione è cresciuta insieme a me e si è unita a un’altra mia grande passione che è raccontare storie. Se il true crime viene da mia mamma, il fatto di raccontare storie viene da mio nonno. Lui era un cantastorie e, essendo io cresciuta molto con i miei nonni, perché i miei genitori lavoravano costantemente, ho assorbito questa questa cosa e l’ho fatta mia».
Prima di aprire il tuo canale cosa facevi?
«Lavoravo nei negozi. Ho iniziato a lavorare da quando ho potuto per necessità fondamentalmente perché vengo da una famiglia molto molto umile e vivevo in una casa molto molto piccola, non c’era letteralmente più spazio per me. Quindi per trovare la mia indipendenza ho iniziato a fare i primi lavoretti, poi sono entrata nel retail e ho iniziato a lavorare nei negozi come commessa, come visual merchandiser. Non era il lavoro dei miei sogni però lo facevo per necessità».
Ma come ti eri immaginata la tua vita? Cosa avresti voluto fare?
«Ti dico la verità, non sono mai stata una persona ambiziosa. Ho sempre pensato che avrei lavorato perché avevo bisogno di lavorare. Più che altro magari mi immaginavo di vivere in un’altra parte del mondo, avevo più questo tipo di ambizione, cioè di vivere in un paese che mi piacesse. Quindi oggi sono ancora più felice di quello che faccio perché non era proprio nei miei piani».
Hai raccontato di essere un persona fragile, cosa ti ha portato a pensarlo?
«Da bambina avevo più bisogno di attenzioni, avevo bisogno di essere seguita, mi distraevo molto facilmente. Poi purtroppo ho avuto una brutta esperienza per tutte le scuole elementari con una maestra che non ha saputo comprendere le mie fragilità e anzi le ha peggiorate. Questo da più grande mi ha portato a imbattermi in relazioni sbagliate, perché c’era sempre in me quel bisogno di conferme. Ma io sono tuttora una persona fragile, in modo diverso ovviamente, ognuno ha le sue fragilità. Ad oggi però sono consapevole, anche grazie ai tantissimi anni di terapia. A volte quando registro alcuni episodi, soprattutto quando lo faccio in collaborazione con le persone coinvolte, mi ritrovo a piangere».
Hai raccontato di aver subito violenze fisiche e psicologiche. Posso chiederti cosa è successo?
«Mi trovavo in questa relazione negativa, molto complessa, sicuramente tossica, in cui c’erano tantissimi litigi. Ed è successo anche che mi che mi si venisse dato uno schiaffo. Gli spintoni e i litigi si trasformavano spesso in episodi brutti di violenza sia verbale che fisica. L’unico risvolto positivo di questa situazione è che è stato a quel punto che ho deciso di andare in terapia».
Raccontavi che hai vissuto a Hong Kong, Shanghai e ora sei a Gran Canaria. Torneresti in Italia?
«Al momento no. La mia fame di vivere fuori non è ancora soddisfatta. Non so neanche se rimarrei qua a Gran Canaria per sempre. Non penso mai troppo in là. Cerco, cerchiamo di ascoltarci abbastanza. Per il momento siamo qua e stiamo benissimo, ci siamo costruiti il nostro nido. Poi comunque in Italia torno spesso e prendo quello che di buono ha da offrirmi».
Tu e tuo marito, Edoardo Coniglio, siete appunto “Partner in (true) crime”. Com’è lavorare insieme?
«Allora lavorare insieme ad oggi è bello. All’inizio chiaramente ci stiamo dovuti un po’ adattare l’uno all’altro. Il nostro equilibrio era che lui viaggiava per il suo lavoro dal lunedì al venerdì e ci vedevamo solo il weekend. Ed è stato così per diversi anni, considerando che stiamo insieme da 10. Quindi siamo passati da quello a fare tutto insieme. È stato un cambiamento notevole. Poi lui viene dal mondo corporate che segue tutta un’altra mentalità e un modo di lavorare che io non avevo, che non ho e che mi rifiuto di avere, perché sono molto più fluida nella gestione delle cose. Lavorando insieme abbiamo trovato questo equilibrio per cui io prendo un po’ dal suo modo di lavorare, più strutturato, e lui prende un po’ dal mio, meno stressante. Per quanto riguarda invece la vita personale, ci siamo dovuti mettere dei paletti. Per esempio dopo una certa ora non parliamo di lavoro. Se siamo fuori a cena e iniziano a parlare di lavoro, ci interrompiamo e piuttosto ci mettiamo una nota sul telefono e riprendiamo il giorno dopo».
Come scegli le storie da raccontare?
«Per Elisa True Crime le scelgo io abbastanza di pancia. A volte mi arrivano delle richieste che io valuto ma deve comunque scattare qualcosa in me. Mentre per Partners in (True) Crime, con mio marito, è diverso perché facciamo un episodio ciascuno, cioè in un episodio racconto io la storia a Edoardo, che lui non deve sapere, e nell’episodio dopo lui racconta la storia a me, senza che io sappia niente. In quel caso io scelgo le mie storie e lui le sue, ma non ce le diciamo».
Quanto ci metti a preparare una puntata?
«Pubblico un video a settimana, ogni lunedì, quindi purtroppo la parte di lavoro dietro al video deve essere ridotta e contenuta. Del testo me ne occupo io, delle ricerche se ne occupa la mia collaboratrice, Giulia, e anzi vorremmo integrare anche un’altra persona. In tre o quattro giorni cerco di scrivere tutto, anche se ci sono dei casi che per forza di cose sono più complessi, più lunghi, allora lì ci lavoro in parallelo».
Ti capita di scartare un caso perché “troppo”? E se sì, cosa ti fa dire “no, questo non lo racconto”?
«Sì e no. Ti faccio un esempio: il caso che deve uscire lunedì è piuttosto complesso perché è la prima volta in cui si parla di intelligenza artificiale. È la storia di un ragazzino di 14 anni che è diventato dipendente da un’app in cui puoi chattare con dei bot che sembrano umani. Per poterne parlare ho provato anche io quest’app ed è stato veramente sconcertante. Mi sono ritrovata con mille dubbi: non sapevo se e come parlarne, perché avevo paura di farla scoprire io agli adolescenti. Mi sono chiesta se non rivelare il nome dell’app, se non parlarne affatto, se cambiare caso. Ci ho riflettuto e ho ritenuto che non ci fosse nulla di più sbagliato del rimanere ignoranti in una materia potenzialmente pericolosa. Così ci siamo rivolti a dei professionisti: oggi stesso ho una call con uno psicologo che è esperto di intelligenza artificiale. Chiederemo anche un parere legale. Questo è un caso un po’ particolare, ma la stessa cosa vale per le storie cruente. Se c’è un delitto particolarmente efferato, la mia regola è sempre che i dettagli superflui e non funzionali alla comprensione della storia, evito di raccontarli».
Come ti proteggi dal male che racconti?
«In generale ho una tolleranza molto alta per questo genere di cose. Mi accorgo di aver raggiunto un po’ il mio limite quando la sera non riesco a guardare la televisione, e magari mi rendo contro di riuscire a guardare solo i cartoni animati o Camera caffè, mio “guilty pleasure”. Quando mi rendo conto che il pensiero di guardare anche solo un telefilm mi appesantisce, mi rendo conto che il mio cervello non ce la fa più e ha bisogno di riposarsi».
Qual è il caso che per te è stato più difficile da raccontare? E perché?
«Il caso più orribile che io abbia mai raccontato è quello del piccolo Federico, un bambino di otto anni che è stato ucciso dal padre in un incontro protetto all’interno di un asilo. La madre del bambino aveva denunciato questo uomo già diciassette volte, ma non è mai successo niente. Anzi, gli assistenti sociali costringevano la madre a portare il figlio agli incontri protetti, nonostante neanche il bambino ci volesse andare. In uno di questi incontri il padre è riuscito ad entrare con un coltello e una pistola e ha tolto la vita al figlio, veramente in un modo atroce. E nessuno ha mai pagato per questa cosa. Noi siamo molto amici con la mamma del piccolo Federico e io non so con che forza lei ancora oggi è lì che lotta per questa storia, dopo tantissimi anni. Ecco questo proprio mi distrugge, ogni volta che ci penso mi commuovo, anche adesso».
Perché il crime ci affascina tanto secondo te?
«Secondo me il crime ci ha sempre affascinato. A volte mi ritrovo a guardare dei documentari un po’ vecchi e mi rendo contro che la cronaca nera veniva raccontata in un modo molto sensazionalistico. Invece adesso trovo che ci sia una nuova sensibilità. Tante persone mi scrivono dicendomi che prima di scoprire il mio canale si sentivano strane perché erano affascinate da questi argomenti, ma si sentivano sempre un po’ come se fosse una cosa di cui doversi vergognare».
Il tuo canale è cresciuto tantissimo: come vivi questo successo e questa esposizione?
«In realtà io me ne rendo conto molto poco, devo dire. Un po’ perché ho sempre vissuto all’estero, quindi non incontro spesso persone che mi conoscono qui, ancora meno in Asia. Certo quando vengo in Italia è sempre strano, quando le persone mi riconoscono per strada e si emozionano, oppure quando faccio i firmacopie. Ricordo il mio primo firmacopie in cui avevo di fronte persone emozionate di incontrarmi, mentre per me era il contrario, ero io emozionata ad avere loro davanti. In ogni caso sto con i piedi per terra. L’unica differenza magari è che adesso sono molto più cauta rispetto a quello che pubblico, alle parole che uso quando devo raccontare qualcosa, perché chiaramente mi rendo conto che sono tante le persone che ascoltano o leggono ciò che scrivo. In questo senso sento un po’ di più il peso di questa responsabilità».
Hai un community molto vasta e fedele: hai mai avuto haters? Come li gestisci?
«Devo dire che sono fortunata perché ne ho pochi, mi arrivano veramente pochi commenti negativi. Ovviamente ne ho, non si può piacere a tutti. In ogni caso non li gestisco in alcun modo, semplicemente non mi toccano. Anche perché per ogni commento negativo ce n’è uno positivo, che magari dice esattamente l’opposto. Sicuramente alcuni commenti li ho fatti miei, in parte perché ero d’accordo con loro, ma soprattutto perché erano costruttivi».
Come ti approcci ai grandi casi di cronaca contemporanei, come il delitto di Garlasco?
«Di solito aspetto a trattarli, perché vengono dette talmente tante cose, tutto e il contrario di tutto, che preferisco aspettare, sia per informarmi bene, si perché altrimenti dovrei fare aggiornamenti continui. Poi in generale preferisco parlare di casi che hanno avuto meno meno eco mediatica, perché quando tutti parlano di quella cosa lì, penso sempre: io cosa posso dire in più?».