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I fratelli Ramponi accusati di strage. La crisi iniziata 10 anni prima con un incidente mortale col trattore e i guai con l’assicurazione

15 Ottobre 2025 - 15:22 Filippo di Chio
ramponi verona esplosione carabinieri
ramponi verona esplosione carabinieri
Lo schianto nel gennaio 2012, quando perse la vita il 37enne Davide Meldo. Da lì guai giudiziari uno in fila all’altro, uniti a finanziamenti mai ripagati perché «tutti erano contro di loro». Fino all'uccisione di tre carabinieri

Sono accusati di strage i fratelli Franco, Dino e Maria Luisa Ramponi che ieri, alle 3.15 di mattina di martedì 14 ottobre, hanno fatto esplodere il loro casale di Castel D’Azzano, in provincia di Verona. La deflagrazione, causata da una scintilla all’interno di un soppalco saturato di gas, è avvenuta durante un’operazione di sfratto e ha ucciso tre carabinieri ferendo altri 25 uomini tra militari, poliziotti e vigili del fuoco. La nuova ipotesi di reato è stata formulata dal procuratore di Verona, Raffaele Tito, dopo un giorno intero di valutazioni e aggrava ulteriormente la posizione dei tre sessantenni, su cui finora pendeva l’ipotesi di omicidio volontario plurimo con l’aggravante della premeditazione. Oltre al reato di strage ai tre sono contestati anche quelli di detenzione di esplosivo, crollo e lesioni gravissime. Domani ci saranno gli interrogatori i garanzia. 

L’incidente del 2012 e il prestito chiesto alla banca

Quello dei fratelli Ramponi non è un colpo di testa, nato dalla furia del momento. È l’esito di una serie di eventi, di incidenti, di guai giudiziari, di silenzi e di minacce che hanno inizio nel gennaio 2012. Più precisamente da un nome e un cognome, Davide Meldo, 37enne morto in un incidente stradale a Trevenzuolo dopo che la sua auto aveva preso fuoco a seguito dello schianto contro il trattore di uno dei due fratelli Ramponi. Il processo fu lungo ma alla fine il verdetto dichiarò colpevole il Ramponi. L’assicurazione da cui era coperto non entrò mai in campo perché il trattore procedeva a fari spenti: il peso del risarcimento doveva gravare tutto sui tre Ramponi. Una parte la ripagarono vendendo alcuni campi, un’altra chiedendo un prestito alla banca nel 2014. Di quanto? Forse 50mila euro, forse 240mila, che si aggiungono al finanziamento chiesto per un frutteto.

Le firme “false” e i primi pignoramenti

Passano gli anni ma la banca quei soldi, e gli interessi annessi e connessi, non li rivede. «Non abbiamo mai chiesto un prestito», sostengono. «Le firme sono false». Si accusano a vicenda, un Ramponi dice che nella firma il nome è il suo ma la mano che l’ha scritta è del fratello. Dunque, conseguenza diretta, il finanziamento non sarebbe valido, nonostante accertamenti giudiziari dicano l’esatto contrario. Rimangono a secco anche gli avvocati, i bolli e le spese legali vengono sistematicamente ignorati. Passa tutto in mano al giudice, che decide per l’intervento diretto. I campi della famiglia Ramponi, eredità divisa tra i figli, vengono spezzati in tre. Una parte viene venduta subito per ripagare parte del debito, una seconda parte – quella con il casolare – doveva andare all’asta il 25 ottobre ed era valutata circa 140mila euro. La terza, grande quanto la metà di un campo da calcio, sarebbe potuta rimanere in mano a Franco, Dino e Maria Luisa. I tre tirano dritto: ognuno con una ditta a suo nome, almeno fino al 2020 quando la sorella chiude la sua e inizia a percepire il reddito di cittadinanza. 

Le prime minacce: «Ci uccidiamo, ci facciamo saltare in aria»

L’avviso di sgombero viene comunicato, ma dall’altra parte nessuno ascolta. Fallisce anche il tentativo di parlare loro tramite il medico di base. I fratelli sono introvabili, e quando vengono visti è solo perché si fanno trovare. Anzi, si fanno notare con azioni di protesta plateali che quasi ogni volta attingono al medesimo canovaccio: minacciare di farsi del male, di uccidersi, o di uccidere chi «minacciava» la loro proprietà. È così che nel 2021 Franco e Dino Ramponi si recano in tribunale, salgono sul tetto e minacciano di gettarsi di sotto. Poi si rendono di nuovo irreperibili per tre anni. Tornano a farsi vedere nell’ottobre 2024, quando al casolare compare l’ufficiale giudiziario con alcuni agenti: Franco e Maria Luisa accendono delle bombole di gas, forse le stesse usate nell’esplosione di martedì mattina, e minacciano di farsi saltare in aria.

Le minacce all’ufficiale giudiziario: «Ti facciamo esplodere»

E così ancora, come una storia che si ripete identica e ciclica. Passano trenta giorni, l’ufficiale giudiziario torna ma loro non ci sono: si trovano sul tetto, pronti a gettarsi di sotto. L’autorità decide di non forzare la mano, aspetta e denuncia i tre per resistenza a pubblico ufficiale e calunnia. A febbraio 2025 l’ufficiale giudiziario torna ancora, ci sono ancora le bombole di gas ma questa volta sono armati anche di bombe molotov. E le minacce sono rivolte a lui: «Ti facciamo esplodere». 

L’offerta della casa in montagna e l’esplosione

Si arriva così all’11 ottobre, data prevista per lo sfratto. Il procuratore di Verona ordina ai carabinieri di sorvolare con alcuni droni il casale per verificare che non ci siano esplosivi: sul tetto vengono avvistate delle molotov. Vengono usati anche piccoli velivoli termici, per verificare se i tre siano in casa e se sono armati. Martedì 14 è la volta della perquisizione e dello sgombero. Il Comune pensa di avere trovato una soluzione, offrendo loro un alloggio in montagna con uno spazio disponibile per i loro animali. Un’alternativa che i fratelli non hanno mai preso in considerazione. I carabinieri arrivano nel cuore della notte, alcuni si calano dal tetto mentre altri entrano dalla porta principale. Franco e Dino sono in una cantina poco distante, Maria Luisa è lì con l’accendino in mano: di andarsene in montagna non se ne parla, costi quel che costi. E scocca la scintilla

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