La stanza dell’affettività nel carcere “Lorusso e Cutugno” c’è ma non funziona. La Garante dei detenuti di Torino: «Tutto fermo» – Video
«Nel mio mondo per un “ti voglio bene”, per un “ti amo” l’attesa dura settimane e, a volte, tutta la vita. Questa è un’attesa, però, che sempre da me, nella mia cittadina di 60mila anime recluse, logora tantissimo e rende le persone disumane, insensibili: siamo tutti ansiosi di ricevere l’amore, l’affetto e la libertà. È vero che l’attesa aumenta il desiderio, ma è anche vero che spesso la troppa attesa ti fa passare il desiderio stesso. L’attesa è l’assenza piacevole di qualcosa o qualcuno in un tempo circoscritto, ragionevole per l’obiettivo da raggiungere. Quando questo tempo diventa invece illimitato, si tramuta di conseguenza in abuso, diventa come quel frutto che se non raccolto in tempo, da buono e saporito, diventa marcio e appassito». Alex Frongia (detenuto del carcere di Bologna | Redazione “Ne vale la pena“)
Alex è uno dei circa 17 mila detenuti – quasi tre su dieci, su un totale di 60 mila – che potrebbero beneficare della stanza dell’affettività, se ogni carcere italiano ne fosse provvisto. Ma non è così. Nonostante una sentenza della Corte costituzionale e una successiva circolare del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), solo quattro istituti dispongono oggi di locali dove le persone recluse possono incontrare i propri partner senza sorveglianza diretta. Più in generale, appena 32 carceri su 189 offrono ambienti idonei a consentire relazioni affettive e sessuali.
Tra i pochi istituti dotati di spazi adeguati rientra anche il carcere “Lorusso e Cutugno” di Torino, dove l’apertura dell’area riservata ai colloqui intimi era programmata per il primo novembre. Ma non è ancora avvenuta. «È tutto pronto, i colloqui non sono però iniziati», dichiara a Open Diletta Berardinelli, Garante delle persone private della libertà personale di Torino. «So che sono arrivate delle richieste ma non ancora delle prenotazioni stabilite», aggiunge, smentendo così l’ipotesi – inizialmente circolata – che non fossero arrivate domande.
Negli ultimi mesi diversi episodi di cronaca – dalla detenuta rimasta incinta nella casa di reclusione di Vercelli a quella di Rebibbia finita a processo per aver avuto un rapporto sessuale durante i colloqui – hanno riacceso il dibattito sul diritto all’affettività. E proprio il caso di Vercelli, secondo alcuni, potrebbe aver contribuito a rallentare l’avvio degli incontri nell’istituto torinese. Al momento non è stata fissata una nuova data per l’avvio dei colloqui intimi, ma per la Garante «è questione di tempo», precisa. «Mantenere un legame affettivo, anche fisico, aiuta a non recidere rapporti fondamentali – prosegue Berardinelli -. Spesso la reclusione interrompe relazioni che invece possono essere un punto di riferimento positivo nel percorso di reinserimento».
Le (poche) stanze dell’affettività e lo spazio nel carcere “Lorusso e Cutugno” di Torino
I primi permessi per i colloqui intimi in carcere erano stati concessi a Terni e Parma lo scorso febbraio, seguiti dall’inaugurazione della cosiddetta stanza dell’affettività nell’istituto di Padova. L’ultima, inaugurata il 1° novembre ma non ancora operativa, è quella di Torino, dove i detenuti hanno diritto a due ore al mese coi propri partner. «Si tratta di un locale abbastanza ampio, all’incirca una quindicina di metri quadri – ci spiega Berardinelli -, dotato di un letto matrimoniale costruito dai detenuti stessi e di un bagno adeguato».
Chi potrà accedere e chi no
Potranno accedere agli incontri intimi i detenuti sposati, uniti civilmente o stabilmente conviventi, con priorità per chi non usufruisce di permessi premio, chi ha pene più lunghe o si trova in carcere da più tempo. La stanza sarà accessibile anche alle persone recluse in altri istituti di Piemonte e Valle d’Aosta, «ma non è ancora chiaro come saranno organizzati gli spostamenti», precisa ancora Berardinelli.
Ne sono, poi, esclusi i detenuti in isolamento sanitario, chi è stato sorpreso a possedere microtelefoni, sostanze stupefacenti o armi. E non possono neppure avanzare richiesta coloro che hanno partecipato ai disordini in carcere e i detenuti al 41-bis. «Su quest’ultimo punto – sottolinea la Garante – servirebbe una riflessione più ampia e un’osservazione individuale dei singoli casi. Si potrebbe valutare di volta in volta il rischio e la possibilità di applicare questo diritto in sicurezza».
Le regole del Dap prevedono, inoltre, che la porta non possa essere chiusa dall’interno e che il personale disponga di equipaggiamento tecnico per il controllo dei detenuti e delle persone ammesse ai colloqui riservati. Infine, dove possibile, si raccomanda installare in ogni locale un sistema di allarme sonoro che possa essere azionato dagli occupanti, in caso di pericolo e consentire l’immediato intervento della polizia penitenziaria.
Le critiche del sindacato di polizia
L’iniziativa ha suscitato critiche da parte dell’Organizzazione sindacale autonoma di polizia penitenziaria (Osapp) di Torino, che avrebbe preferito l’istituzione di permessi specifici per i detenuti, evitando di aggiungere agli agenti il compito di gestire la stanza. «Capisco le difficoltà organizzative iniziali, ma dobbiamo ricordare che l’obiettivo comune è ridurre la recidiva. Se questa iniziativa contribuisce a questo scopo, ogni sforzo è giustificato», sottolinea la Garante. «La polizia penitenziaria ha un ruolo centrale, ma anche l’area trattamentale vive una carenza cronica di personale: a Torino ci sono circa 1.400 detenuti e solo una ventina di operatori tra educatori, psicologi e criminologi. Il Dap deve intervenire per rafforzare entrambe le aree, nonostante gli ultimi sforzi che hanno visto nuove assunzioni».
Qual è la situazione dell’affettività in carcere?
In Italia, il contatto fisico e la sessualità in carcere sono stati a lungo considerati un tabù, più da eludere che da normare. E, per certi versi, lo sono ancora. Privazioni che incidono sulla dignità e sui diritti fondamentali della persona, lasciando il desiderio – come nel caso di Alex – confinato nell’attesa. Eppure, non si annullano dietro le sbarre. La loro negazione, anzi, pone interrogativi profondi sui limiti della pena e sui diritti che devono continuare a essere garantiti anche in condizioni di restrizione della libertà.
Molti Paesi europei, tra cui Albania, Austria, Belgio, Francia e Germania, offrono spazi dedicati per colloqui intimi, lontano dal controllo del personale penitenziario. Anche le istituzioni europee hanno progressivamente riconosciuto l’importanza di tutelare i diritti affettivi e sessuali. Ma negli istituti di detenzione italiani, l’intimità viene spesso negata. Lo dimostrano i numeri del ministero della Giustizia.
Negli ultimi anni, la società civile, la magistratura di sorveglianza e la Corte costituzionale hanno iniziato a rompere questo lungo silenzio istituzionale, riconoscendo che intimità e sessualità non sono privilegi, ma diritti umani fondamentali. La svolta è arrivata con la sentenza n° 10 del 2024 della Corte costituzionale, che ha dichiarato illegittimo il controllo visivo obbligatorio da parte della polizia penitenziaria durante i colloqui coi partner, definendolo «lesivo della dignità personale, del diritto alla vita privata e familiare e dei vincoli costituzionali che impongono il rispetto dei diritti internazionali».
Sulla scia di questa sentenza, e dopo oltre un anno di attesa, l’11 aprile 2025 il Dap ha emanato la circolare «Affettività e incontri intimi in carcere». Per la prima volta, viene riconosciuta la necessità di predisporre spazi idonei per gli incontri affettivi e intimi, restituendo dignità e umanità a chi vive la condizione carceraria. Eppure, tra la dimensione teorica e quella pratica permane un divario significativo, amplificato dalla complessità del contesto carcerario in cui le stanze dell’affettività si inseriscono.
Il complesso contesto carcerario di Torino
Il carcere di Torino, come gran parte degli istituti penitenziari italiani, deve fare i conti con sovraffollamento, sofferenze psichiatriche, dipendenze tra i detenuti e carenza di personale. Per la garante, sarebbe importante che il ministero pubblicasse «i dati ufficiali sul tasso di recidiva, come avviene in altri Paesi, per valutare l’efficacia reale del sistema penitenziario». Auspica, inoltre, un dialogo aperto con il governo e con tutti i livelli dell’amministrazione penitenziaria e la creazione di «Stati generali permanenti della giustizia», un laboratorio operativo che metta attorno allo stesso tavolo istituzioni, operatori, terzo settore e accademia.
«L’obiettivo deve essere il benessere di tutti – prosegue -: persone detenute e operatori. Non deve esserci contrapposizione tra chi sta dentro e chi lavora dentro: c’è un noi, un’unica comunità che deve funzionare insieme».
Il percorso verso il pieno riconoscimento del diritto all’affettività resta ancora lungo. La carenza di strutture adeguate e la riluttanza del legislatore a intervenire mantengono la sessualità dei detenuti in una condizione di sospensione. Ma la stanza dell’affettività è soltanto un primo passo. Non basta. «Si tratta di una risposta logica e umana: dove si riconosce la sfera affettiva, si riduce la tensione interna. Tuttavia – avverte la Garante dei detenuti – i locali per i colloqui intimi non devono essere solo luoghi fisici: vanno accompagnati da attività di sostegno e percorsi educativi sui legami familiari e affettivi, per garantire un’applicazione piena e consapevole del diritto».
Non si tratta solo di regolamentare gli incontri, «ma di assicurare l’effettiva applicazione di un diritto in modo uniforme», senza lasciarne la realizzazione alla discrezionalità delle direzioni carcerarie o all’incertezza delle ordinanze giudiziarie. Bisogna riconoscere che la pena non può annullare i legami affettivi e che la dignità umana non si interrompe dietro le sbarre di un carcere.
La lettera di Vittorio
«6 (ore) x 12 (mesi) = 72 ore totali. 72 ore (pari a 3 giorni in un anno) di colloquio e una telefonata di 10 minuti a settimana rappresentano il tempo che viene concesso per coltivare gli affetti. (…) Nei confronti di chi sarebbe lesivo se il detenuto, in uno spazio più riservato, potesse condividere con la moglie anche le lacrime, i sogni, i progetti ed i timori che per pudore, nella maggior parte dei casi, vengono celati con comportamenti standard imposti dal luogo? Chi potrebbe definire fuori luogo o “osé” se la moglie si sentisse libera di abbracciarlo e di appoggiare il capo al suo petto senza temere che dal vetro si senta bussare il solito agente che la invita a non farlo? Di quali eccessive concessioni si potrebbe mai parlare se in uno spazio più riservato e per un maggiore numero di ore un padre potesse ascoltare i suoi figli con la dovuta attenzione? È soprattutto questa l’affettività in carcere e non solo sesso!». Vittorio (detenuto del carcere di Bologna | Redazione “Ne vale la pena“)
Foto copertina: ANSA / ALESSANDRO DI MARCO | Detenuti all’interno del carcere “Lorusso e Cutugno” di Torino
Lettere dei detenuti : Redazione “Ne vale la pena” del carcere di Bologna
