Mattia Caldara, la depressione e il tradimento dietro l’addio al calcio: «Mi ha distrutto, ho fatto male a chi amavo: ora voglio vivere»

Ha rischiato anche di dover ricorrere a una protesi Mattia Caldara, che a 30 anni ha deciso di ritirarsi dal calcio. In una lettera molto intima pubblicata sul sito di Gianluca Di Marzio, l’ormai ex difensore racconta della depressione, della sua famiglia che ha dovuto trascurare e di quanto il calcio ha rischiato di togliergli fino alla decisione più sofferta. «Un foglio bianco, una penna. Chiudo gli occhi, butto fuori l’aria. Li riapro, è arrivato il momento. Caro calcio, io ti saluto. Ho deciso di smettere». La decisione arriva dopo una visita da uno specialista a luglio e decine di punture di testosterone. Il verdetto del medico è definitivo: «Non hai più la cartilagine della caviglia. Se continui dovremo metterti una protesi. Il mio corpo mi aveva tradito. Questa volta in modo definitivo».
Il crollo dopo l’infortunio al ginocchio
Il punto di non ritorno è stato l’infortunio al ginocchio al Milan. «Ricordo quell’allenamento. Borini mi cade sul ginocchio. “Crack”. Mi sono rialzato per tornare a correre, non potevo essermi rotto ancora. Appena ho appoggiato il piede, sono crollato a terra. Il mio ginocchio era spappolato», racconta Caldara. Da quel momento inizia il calvario: «La mia testa non era pronta per sopportarne le conseguenze. In quell’allenamento una parte di me è morta per sempre». Il difensore descrive il malessere mentale con parole toccanti: «È simile a un velo. Invisibile, ma capace di opprimerti. Da fuori non si vede, ne osservi solo le conseguenze. E, con il suo silenzio assordante, piano piano ti cambia. Ti offusca i pensieri, ti crea una bolla in cui sei rinchiuso. Tristezza, frustrazione, buio. Non so se si chiami depressione. So, però, cos’ho provato».
«Ho fatto del male alle persone che amavo»
L’ammissione più dura riguarda la famiglia: «Quando vivi situazioni simili, non fai del male solo a te, ma anche alle persone vicine a te. Le spegni. Le contamini con il tuo malessere. Smettono di stare bene. E la responsabilità è la tua». Sua moglie glielo ha detto chiaramente: «Non ti riconosco più, non sei te stesso». Anche il padre era preoccupato. «Mi ero dimenticato di chi era al mio fianco e mi voleva bene. Ho rischiato di rovinare quella che in fondo è l’essenza della vita: l’amore e la famiglia». Per anni Caldara ha inseguito un’illusione, quella di tornare il giocatore che era: «Ero nel punto più alto della mia carriera, poi in pochi secondi è cambiato tutto. Ci ho provato, ma non era più possibile. Questa rincorsa a un’illusione mi ha logorato».
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La decisione finale: «Ora sono libero»
A fine agosto le ultime punture di testosterone e la sentenza dello specialista: «L’ago non passa, non c’è spazio tra la tibia e il piede. Se continui così dovrò metterti la protesi». In quel momento Caldara decide: «Cosa vado avanti a fare? Era il momento di dire basta. Basta al calcio giocato e, soprattutto, alla sofferenza e al vuoto che da anni mi accompagnavano». La lettera si chiude con un messaggio di rinascita: «Ciao calcio, sono pronto a salutarti. L’ho fatto. Mi sento più leggero. Mi sento libero di essere me stesso, finalmente. Ripongo questa penna sul tavolo. Mi posso alzare da questa sedia e iniziare a camminare. Si abbassa il sipario. In campo ora c’è Mattia».
