Charlie Charles con il suo album ci mette la faccia: «La trap ormai è pop, ma io non rinnego nulla» – L’intervista

Charlie Charles è uno di quei producer, forse il principale, ad aver stabilito con il suo lavoro, specie con Sfera Ebbasta, i canoni delle sonorità della trap, un genere che, al netto delle polemiche che ha suscitato in passato, ha segnato un’epoca. Ora il salto dall’altra parte, mettendoci la faccia, guadagnando il proscenio.
Lo scorso weekend infatti è uscito con un bellissimo album dal titolo La bella confusione, omaggio a 8½ di Fellini, che vira vertiginosamente rispetto tematiche e sonorità che lo hanno reso negli ultimi dieci anni il Re Mida della scena trap/rap. Un disco che, attraverso le voci di tante primissime donne del circuito musicale italiano (da Ernia a Mahmood a Madame e Blanco, passando per Elisa, Massimo Pericolo, Nayt e Bresh), esplora in maniera netta, aperta, intima, sincera, la propria vita.
Come mai questa nuova esigenza di metterci la faccia?
«Dobbiamo tornare ad almeno sei anni fa, ho vissuto una condizione particolare da produttore, il pubblico ha posto l’attenzione verso la figura. Nel mio caso è avvenuto tutto molto silenziosamente, mi sono esposto veramente poco, ho preso posizione pochissime volte, non ho parlato sostanzialmente. Quindi sono diventato famoso senza che nessuno sapesse veramente chi fossi»
E comunque ti sei tolto diverse soddisfazioni…
«Sì, la vittoria a Sanremo, il disco rap più venduto in assoluto, centinaia di dischi di platino, ma, ecco, sono tutte cose che per fortuna mi sono accorto subito, non nutrono la mia persona, nutrono un po’ l’ego, quel lato di sé un po’ più distratto, un po’ più materialista. Allora mi sono chiesto “Ma io perché lo sto facendo ancora?”. Ero un ragazzino che sognava di farcela e ora ce l’ho fatta, e adesso qual è la mia nuova motivazione? Perché io non devo più farcela, io sono a posto, posso andare in pensione, però ho solo 25 anni»
Il sogno di molti…
«Certo, è una cosa meravigliosa, però dall’altro lato c’è tutto un aspetto, secondo me, umano, molto intricato, ci sono veramente dei nodi da sciogliere rispetto a questo tema. E il primo è stato chiedermi “Chi sono io?”, perché quando il producer fa il suo lavoro entra un po’ nei panni dell’altro. Con rispetto, chiedendo permesso, ci si chiede “Ok, io ho di fronte a me questo soggetto, che per me è questa cosa, quindi gli cucirò quest’abito su misura”. Ecco, con questo disco ho cercato un po’ il mio abito»
Credi che l’ansia di farcela troppo e troppo in fretta sia un po’ il nuovo male di questa musica?
«Io penso che il successo è un trauma a tutti gli effetti, a prescindere dall’età a cui ti arriva. Sicuramente è un tema che si è accentuato con l’esposizione che abbiamo oggi, con le piattaforme che oggi ti mettono letteralmente in una vetrina. Prima c’era un pochino più di discrezione, magari c’erano i paparazzi che ti seguivano, però ovviamente non c’era la tua vita spiattellata ovunque. Adesso ti riempi di storie, fai i post, vai al ristorante e c’è uno che ti sta facendo un video, adesso sono tutti paparazzi.
Quindi sicuramente è un tema che si è un po’ centralizzato negli ultimi anni, però, come tutte le cose, secondo me non è neanche uno strumento da demonizzare. È una cosa che sta accadendo, va accolta con consapevolezza e secondo me va spiegata. Un anno e mezzo fa sono andato alle scuole medie a parlare un po’ di questa cosa, di come non ci siano gli strumenti là fuori per tradurre quello che succede online. Tu pensi di vedere un post di una persona X e ti illudi che sia la realtà, ti illudi che sia vero, ti illudi che allora quella è la cosa a cui ambire. Se guardi online il 90% delle persone sono felici, fanno una vita meravigliosa, insomma hanno ottenuto quello che volevano. Ecco ma manca una dose di realtà enorme»
Ernia in un’intervista con noi di Open sull’argomento ha detto: “Noi non siamo progettati come esseri umani per ricevere questo tipo di attenzione”…
«Esatto, noi non ce l’abbiamo scritta dentro questa cosa. Nessuno è fatto per vivere quella condizione di egocentrismo puro. C’è qualcosa di sadico in questa cosa. Poi chiaramente ognuno la vive un po’ a modo suo, c’è chi ci sguazza, a me invece spaventa».
La cosa interessante è che poi tu ti sei ritrovato inventore del suono di una scena che vive di questo egocentrismo… come hai vissuto questa posizione?
«Questo è un po’ un paradosso, però per me è stata anche una lezione importante. Perché io sono uno che ha le sue idee, mi sento molto razionale, molto consapevole, però a volte gli spunti più interessanti arrivano da fuori dalla mia cerchia di consapevolezza.
Per questo dico che anche se ho una visione di questo tipo, io sento che anche da quei personaggi ho imparato tantissimo. Io credo che sia giusto, per compensazione, che esista io ma che esista anche l’altro, che è il contrario di me. Ecco, in questo mi sento totalmente risoluto, sento di aver accettato questa cosa: per esistere io deve esistere anche il contrario di me, per quanto estremo, per quanto può essere per me fastidioso, però è proprio quel contrario che mi permette di esistere, e viceversa»
Un esempio è Sfera Ebbasta…?
«Sì, che è un fratello, un amico, una persona a cui voglio tanto bene, ma che umanamente sento molto distante. Non ho la pretesa di dire cos’è meglio, cos’è peggio, semplicemente siamo distanti. Poi alla fine io trovo sempre un appiglio per cui dire “Cazzo, ma non è che allora sto sbagliando anch’io?”.
Ecco, questa cosa mi piace tantissimo, perché comunque io ho un magnetismo per queste cose, mi trovo sempre, in qualche modo, attanagliato in situazioni che vanno contro il mio essere, contro il mio volere, però probabilmente per impartirmi una lezione».
Effettivamente, una delle cose che vengono in mente ascoltando questo album è: ma che c’entra un disco così intellettuale, con citazioni altissime, con Sfera Ebbasta?
«Parlare di intellettualismo già la pone su un piano tipo “è meglio quello e quello è peggio”, invece secondo me è un piano di sensibilità, io ho questa sensibilità perché ho il mio vissuto, Sfera ha la sua sensibilità. E, mi viene anche da dire che, paradossalmente, là fuori il mondo è più simile a Sfera che a me, per cui alla fine cos’è meglio? Cos’è peggio? Non lo so»
La trap, che ha stratosferici meriti e stratosferici demeriti, a buona ragione o meno, è stata certamente il genere più attaccato da critici, da genitori, perfino dalla politica… tu come hai vissuto il fatto di aver dato un contributo così fondamentale?
«Non mi va di appiopparmi tutta questa responsabilità, anche perché le cose si fanno in due, quindi se ho avuto una dose di merito io, l’ho avuta tanto quanto il mio opposto. Sicuramente c’è stato un momento della mia vita dove ero più simile a quella roba, ero più simile perché in qualche modo anche il racconto di Sfera era più simile al mio.
Io penso che poi nel tempo entrambi ci siamo estremizzati, io da una parte e lui dall’altra. Io me la godevo, mi piaceva veramente, poi, semplicemente, sono cresciuto. E Sfera uguale, però in una direzione diversa dalla mia, semplicemente. Però, ti ripeto, io in quella posizione stavo bene finché ci sono stato bene, mi sentivo rappresentato finché mi rappresentava. Marracash dice: “Per sapere chi non sono, prima lo sono stato”, che in fondo, insomma, quale verità più grande, no?»
Quindi non rinneghi nulla?
«Io non rinego nulla, so che ho fatto cose meravigliose, cose grandi, sono state cose che hanno parlato alle persone di un’altra generazione, un altro pubblico, con un’altra sensibilità. Per questo non ci vedo niente di male. Però adesso ho voluto fare una cosa diametralmente opposta rispetto a quella, perché questa è la mia storia»
Anche tu hai l’impressione che quel trend stia un po’ svanendo?
«Secondo me è difficilissimo parlare dei trend, perché chissà a quale sentimento sono legati. A me viene da dire questo: la trap, su per giù dieci/quindici anni fa, nasce a livello globale, c’era qui, c’era in America, c’era in Francia… quei ragazzi ai quali dieci/quindici anni fa piaceva quella roba, sono cresciuti anche loro. Quindi forse non è che la trap sta morendo, sta cambiando la gente che si nutriva di quella roba lì.
Poi la trap ormai è anche difficile localizzarla, cioè quella che oggi definiamo trap, ormai è pop, forse la vera trap la sto facendo io con questo disco. Cioè, io mi sono lanciato in una cosa totalmente sconosciuta che ha smosso tante critiche, c’è chi mi dice “Ma che schifo”, “Che merda, non è trap”, ecco io sento di aver rischiato uguale, anzi ancora di più, perché avevo tanto da perdere»
Nel disco ci sono forti riferimenti a 8½ di Fellini…
«Riecheggiava un po’ dentro di me 8½, poi ho proprio capito che il tipo di racconto che ha fatto Fellini, perso un po’ nel caos del proprio film, in cui lui da regista diventa protagonista, ecco in questo mi sono ritrovato totalmente, mi sono detto “Questa roba sta succedendo anche a me, è uguale identica, anch’io da regista della musica sto diventando protagonista della mia musica, quindi sta diventando la mia storia”. Ecco, lì l’idea di omaggiarlo, di adottare il titolo La Bella Confusione, come si sarebbe dovuto intitolare il film di Fellini»
Diversi brani di questo disco sarebbero stati perfetti per Sanremo, che tu hai già vinto come produttore di Soldi di Mahmood. Tra l’altro Conti l’anno scorso ha riservato uno slot a Shablo… ti piacerebbe andarci?
«In questi anni è capitato più volte che cercassero di portarmi brani da presentare a Sanremo. Però ecco, mi sento di dire che sicuramente Sanremo è uno strumento potente, ma non quello giusto per il messaggio che voglio veicolare io, perché comunque è televisione, è intrattenimento e in quell’intrattenimento si perde un po’ la profondità dei messaggi che si nascondono all’interno del disco».
Questo disco è inevitabile che apra a tante domande sul tuo futuro, questa la vedi come una parentesi di roba tua e poi tornerai a lavorare per lo più nella scena urban? Oppure ha aperto prospettive diverse?
«No, adesso penso che mi dedicherò al progetto più importante in assoluto, che è la paternità. Questa è l’unica cosa che riesco a vedere nell’immediato futuro»
Avresti paura se tuo figlio ascoltasse la trap, magari senza capire, come è chiaro che accada anche a molti ragazzi, qual è il limite tra la fiction e la realtà?
«Io da genitore gli darò gli strumenti per capire da solo, io non devo spiegargli nulla. Questo è un tema su cui dibatto spesso con la mia compagna: io credo tanto nel fornire gli strumenti, tanto tutte le generazioni sono cresciute con qualcosa che non stava bene ai genitori. Tutte.
Magari non sarà la trap, non sarà la drill, chissà come si chiamerà la prossima cosa. Io stesso sono cresciuto ascoltando i Club Dogo e chiaramente mia mamma non era contentissima di questa cosa. Siamo tutti figli di generazioni cresciute con una musica totalmente sbagliata e sarà sempre peggio. Eppure sì, c’è chi, ahimè, non ha modo di comprendere fino in fondo e si fa assorbire totalmente da quella cosa che è un po’ una sorta di fantascienza. Ma lo stesso rischio allora c’è guardando un film.
Un bambino può guardare un film e pensare che certe cose vadano fatte perché l’ha visto in un film, o le legge in un libro. L’unica cosa che può fare un genitore è fornire gli strumenti per saper interpretare, per saper tradurre quello che stai sentendo, che stai vedendo, che stai percependo»
Cosa ti piacerebbe che rimanesse di questo disco in chi lo ascolta?
«Spero che funga un po’ da specchio, che per l’ascoltatore sia un modo per entrare in contatto con se stesso. Secondo me è un disco con un messaggio umanitario importante: puoi trovare te stesso, secondo me, dentro questo disco. Oh Dio, sembra che io lo dica con presunzione, ma per me è stato così»
