Ultime notizie BambiniElezioni RegionaliOrnella VanoniUcrainaVolodymyr Zelensky
ATTUALITÀCampaniaCasertaFemminicidiInchiesteViolenza sulle donne

«Ti ammazzo e butto il tuo corpo nel cassonetto»: la storia di Vanessa, scampata al femminicidio

25 Novembre 2025 - 08:10 Alba Romano
«Quando vivi nel terrore le giornate hanno un solo scopo: non morire. Eravamo fuggiti nascosti in un'auto del centro antiviolenza: oltre il finestrino scorreva il futuro»

Vanessa M., 42 anni, è riuscita a fuggire dal suo ex marito dopo vent’anni di torture. Ora è a Casal di Principe e lavora in un ex fortino-bunker confiscato alla camorra: cuce. «Ricordo la prima notte nella casa rifugio. Guardavo i miei figli che dormivano. Ascoltavo il silenzio: né calci, né pugni, né urla, né sangue, né porte sfondate. Finalmente salvi. Quando vivi nel terrore le giornate hanno un solo scopo: non morire. Eravamo fuggiti nascosti in un’auto del centro antiviolenza: oltre il finestrino scorreva il futuro, alle spalle la nostra prigione», dice a Repubblica.

Il corpo nel cassonetto

« Il rumore delle sue urla mi rimbomba ancora nella testa: “Ti ammazzo e butto il tuo corpo nel cassonetto”, gridava, mentre mi picchiava trascinandomi per i capelli fuori di casa. Non conoscevo la felicità fino a quando non ho aperto la porta della casa che sono riuscita ad affittare per me e i miei figli: noi quattro, in pace», ricorda Vanessa. Oggi lui è libero con il braccialetto elettronico. «L’angoscia di vedere nei suoi occhi il lampo cattivo che precedeva le botte, resta sempre lì, in agguato. Anche nei miei figli che sono stati costretti a fuggire soltanto con i vestiti che avevano indosso. Oggi però sono libera e autonoma, grazie al percorso fatto con i centri antiviolenza. Ho ottenuto la separazione, so difendermi, ma ho sempre un contatto diretto con le forze dell’ordine».

Il primo incontro

Lei e l’uomo poi diventato suo persecutore vengono «da un paese della periferia di Napoli, difficile, degradato dove è normale che i maschi siano violenti. Ho capito soltanto nella casa rifugio che essere picchiate mica è un destino. Avevo 17 anni, lui 24, era bello, mi corteggiava, aveva dei precedenti, sì, ma quanti ragazzi entravano e uscivano di prigione nel mio quartiere? Diceva che ero una cosa sua e io mi sentivo amata. Appena fidanzati lui entrò in carcere per sette anni». Nel 2009 è uscito, nel 2010 è nato il loro primo figlio. E sono iniziate le violenze. «Un animale. Mi trascinava per i capelli – li ho sempre avuti lunghi – strappandomi pezzi di cute e mi chiudeva fuori di casa, impedendomi per giorni di vedere i bambini. Una tortura».

Un angelo

«Dopo quegli attacchi feroci, diventava, non scherzo, una specie di angelo. E io mi illudevo. Durava poco: non lavorava, vivevamo con la pensione di invalidità della sorella. Beveva. Usava droghe. Nel 2019 lo denuncio. E lui sembra placarsi. Ritiro la denuncia. E ci sposiamo. Pensavo di non avere altro destino. Intanto era nato il nostro terzo figlio». Poi decide di fuggire: «Era ottobre del 2023. Vidi nei suoi occhi la ferma decisione di uccidermi. Furono gli educatori del doposcuola dei miei figli a indicarmi la “Cooperativa Eva”. Ricordo la voce della presidente: c’è una stanza libera. Ancora mi commuovo».

La fine

Dice che lui «è un uomo frustrato e cresciuto in una cultura di sopraffazione». Ha provato a cercarli «come un lupo che ha perso la preda». Si sente una sopravvissuta: «Sono uscita da quell’inferno prendendo coscienza del perché ho subito un massacro che ritenevo normale. Nel centro ricevi assistenza psicologica, economica. E io ho iniziato a lavorare, sentendo una forza che non mi ha più abbandonata. Mi spezzo la schiena ma la nostra serenità non ha prezzo. Se ce l’ho fatta io è possibile per tutte».