Le aziende possono leggere le chat interne tra dipendenti, la sentenza della Cassazione: ecco quando e perché

I datori di lavoro possono accedere alle conversazioni presenti in una chat aziendale, diversamente da un generico gruppo di WhatsApp, qualora vi sia il sospetto di un illecito. Lo ha chiarito la Corte di Cassazione, che si è espressa sul caso di un dirigente delle risorse umane di Amazon, licenziato dopo che alcuni rappresentanti dell’azienda avevano esaminato i messaggi scambiati nelle chat di lavoro.
La chat aziendale
Dalla conversazione incriminata risultava come il dirigente avesse cambiato idea rispetto all’assunzione di un corriere, dopo avergli detto inizialmente sì. La motivazione? Avrebbe ceduto in una chat con altri manager a pressioni da parte di un collega di un altro ufficio, cambiando idea e operando la scelta in modo non trasparente.
Il dirigente è stato, infatti, licenziato dopo un controllo interno da parte dell’azienda che ha acquisito le conversazioni sulla chat interna Chime, scrive la Repubblica, dopo la segnalazione del candidato, che lamentava di aver subito un trattamento ingiusto.
Il ricorso in Cassazione
Dopo il rigetto del ricorso da parte della Corte d’Appello di Torino, il manager ha quindi presentato ricorso in Cassazione. La questione centrale riguarda la legittimità dell’accesso a una chat aziendale ai fini di un’eventuale azione disciplinare, anche con riferimento a un periodo precedente all’insorgere di un fondato sospetto.
I difensori del manager, Livio Neri e Alberto Guarisio, hanno sostenuto l’illegittimità dell’acquisizione delle chat, in quanto potenzialmente contenenti anche messaggi di natura privata lesivi di diritti personali. La Cassazione ha invece stabilito che le conversazioni possono essere acquisite, anche andando a ritroso nel tempo, al fine di tutelare il patrimonio aziendale, inteso anche in senso immateriale, cioè riferito ai dipendenti.
Le motivazioni della sentenza
La Cassazione ha affermato che «l’eccezione sollevata dalla società è fondata e ciò comporta l’inammissibilità del ricorso». Dagli atti emergono le motivazioni della decisione: in primo luogo, la qualificazione della chat aziendale come strumento di lavoro e la conseguente possibilità di utilizzare i dati e le informazioni raccolte «a tutti i fini», compresi quelli disciplinari. La seconda motivazione, di carattere più tecnico, riguarda i cosiddetti «controlli difensivi», ossia i controlli, anche di natura tecnologica, esercitati dal datore di lavoro per «evitare comportamenti illeciti – come si legge nelle carte – riconducibili, sulla base di concreti indizi, a singoli dipendenti».
Il caso (diverso) del gruppo WhatsApp
La chat aziendale non può essere paragonata a un gruppo WhatsApp di colleghi. Lo scorso marzo, infatti, sempre la Suprema Corte aveva stabilito che i messaggi scambiati in una chat WhastApp non potessero essere utilizzati per giustificare un licenziamento per giusta causa.
Foto copertina: Diego Vito Cervo/Dreamstime
