Vestiti per le feste ma a quale prezzo? Tra ftalati e PFAS, le sostanze chimiche del fast fashion e i rischi per la salute

Tra pranzi in famiglia, cenoni e occasioni conviviali, l’abbigliamento diventa parte integrante delle festività. Vestiti scelti per una sera, accessori, capi per bambini o piccoli regali a basso costo entrano nel quotidiano di queste settimane. Per molti consumatori, scelte rapide e poco impegnative passano sempre più spesso attraverso i siti di fast fashion, che offrono un’ampia disponibilità di prodotti a prezzi contenuti. Una dinamica che tende ad accentuarsi sotto le feste ma che non si esaurisce con il periodo natalizio. L’acquisto di abiti online, economici e a rotazione veloce, accompagna ormai l’intero arco dell’anno: a fotografarne la diffusione è uno degli studi più recenti sul tema, il report di Greenpeace del 2025 riporta come Shein sia oggi il sito di moda più visitato al mondo con circa 363 milioni di visite mensili, più di marchi storici della moda messi insieme.
Ma il caso Shein si inserisce in un sistema più ampio: secondo il report The State of Fashion 2025 di McKinsey & Company, le vendite online rappresentano ad oggi uno dei principali motori di crescita dell’intero settore moda. Un modello basato su migliaia di nuovi capi immessi online ogni giorno, prezzi estremamente bassi e un pubblico in larga parte giovane che rende questi prodotti onnipresenti anche in Europa e in Italia. Ed è proprio questa diffusione capillare a spostare la domanda oltre le note criticità ambientali e di produzione, toccando un aspetto altrettanto centrale: la salute.
Il nuovo report di Greenpeace sui prodotti del colosso cinese Shein fa luce sulla presenza di sostanze chimiche altamente tossiche riscontrate in una parte dei capi analizzati e riporta l’attenzione su una questione tutt’altro che astratta: che cosa stiamo davvero “mettendo addosso” quando scegliamo questi vestiti e quali rischi per la salute?
Il nuovo report
I dati raccolti da Greenpeace rendono la questione tutt’altro che teorica. Nell’indagine pubblicata nel 2025, l’organizzazione ha acquistato 56 capi di abbigliamento e calzature del marchio Shein in otto Paesi, tra cui diversi Stati europei, sottoponendoli ad analisi chimiche condotte da un laboratorio indipendente accreditato in Germania. I risultati mostrano che 18 prodotti su 56, pari a circa il 32 per cento, contenevano sostanze chimiche in concentrazioni superiori ai limiti previsti dalla normativa europea REACH, la principale regolamentazione UE in materia di sicurezza chimica. Tra i capi risultati non conformi figurano anche indumenti destinati a bambini e adolescenti, un dato che aumenta ulteriormente il livello di attenzione sul potenziale impatto sanitario. Greenpeace evidenzia inoltre come risultati analoghi fossero già emersi in indagini precedenti, indicando una criticità che non appare episodica, ma legata a un modello produttivo e distributivo che fatica a garantire un controllo sistematico delle sostanze impiegate.
In diversi casi non si tratta di scostamenti marginali: per alcuni indumenti, in particolare quelli progettati per essere impermeabili o resistenti allo sporco, le concentrazioni di sostanze chimiche rilevate risultano fino a oltre 3.000 volte superiori alle soglie considerate accettabili. In altri prodotti, invece, la presenza riguarda additivi utilizzati per rendere i materiali più morbidi, flessibili o resistenti. Dati che indicano una presenza tutt’altro che occasionale di composti già noti per la loro problematicità dal punto di vista sanitario. Ma che cosa sono esattamente le sostanze tossiche individuate e quali effetti possono avere sull’organismo umano? In che modo entrano in contatto con il corpo attraverso i tessuti che indossiamo ogni giorno e quali sono i precisi limiti di concentrazione imposti?
Le sostanze tossiche
Ftalati
Secondo l’indagine pubblicata da Greenpeace, i ftalati sono stati rilevati in 14 dei 56 capi analizzati, pari a circa il 25 per cento del campione. Una percentuale significativa, che indica come un capo su quattro contenga plastificanti chimici in concentrazioni superiori ai limiti fissati dalla normativa europea, che per alcuni ftalati particolarmente critici stabilisce una soglia massima dello 0,1 per cento in peso sul materiale. Di cosa si tratta esattamente e perché un limite di questo tipo?
I ftalati sono una vasta famiglia di composti chimici utilizzati come plastificanti, cioè additivi impiegati per rendere più morbidi, flessibili e resistenti materiali plastici e polimerici, e cioè materiali costituiti da lunghe catene di molecole ripetute, come le plastiche e molte fibre sintetiche. Ad esempio, in t-shirt con scritte o disegni in rilievo, leggings effetto lucido, giacche con finiture impermeabili, scarpe e sandali in materiali sintetici, suole, lacci e parti flessibili delle calzature, oltre che in accessori come cinture, borse e dettagli gommati.
- Rischi per l’organismo. Dal punto di vista sanitario, la criticità principale è che questi composti non risultano chimicamente legati in modo stabile ai materiali in cui vengono incorporati. Ciò significa che, con il tempo e l’uso, possono migrare dalle superfici plastificate, contribuendo all’esposizione dell’organismo. Diversi studi hanno mostrato che alcuni ftalati sono in grado di interferire con il sistema endocrino umano, tanto da essere classificati come interferenti endocrini, e cioè sostanze capaci di alterare il normale funzionamento degli ormoni che regolano processi fondamentali come crescita, sviluppo, metabolismo e riproduzione. La letteratura scientifica ha documentato questi effetti soprattutto per ftalati come il diftalato (DEHP), il dibutilftalato (DBP) e il benzilbutilftalato (BBP), tra i più studiati. Una volta assorbiti dall’organismo, questi composti vengono trasformati in metaboliti biologici, vale a dire prodotti della loro degradazione che circolano nel sangue e possono interagire con i recettori ormonali, interferendo con i normali segnali endocrini. Ma c’è di più. Studi epidemiologici sull’uomo hanno associato livelli più elevati di questi metaboliti a alterazioni degli ormoni sessuali, riduzione della qualità del seme, problemi di fertilità e interferenze con lo sviluppo dell’apparato riproduttivo, soprattutto quando l’esposizione avviene in gravidanza o durante l’infanzia. Altre ricerche poi indicano legami con disturbi del metabolismo, come aumento del rischio di obesità e insulino-resistenza, e con alterazioni della funzione tiroidea, cruciale per la crescita e lo sviluppo neurologico nei bambini. Si tratta di effetti che i ricercatori spiegano non essere necessariamente legati a esposizioni elevate o acute: possono infatti manifestarsi anche in caso di esposizione ripetuta nel tempo a basse dosi. Un aspetto centrale nel caso degli abiti, che vengono indossati quotidianamente e spesso a contatto diretto con la pelle. L’attenzione è particolarmente elevata quando si parla di bambini e adolescenti: il sistema endocrino in età evolutiva è più sensibile e alcune fasi dello sviluppo rappresentano vere e proprie finestre critiche. In questo contesto, il superamento dei limiti fissati dalla legge indica un livello di concentrazione che non è ritenuto compatibile con un uso quotidiano ripetuto, soprattutto per le fasce più vulnerabili.
- Limite consentito e perché: La normativa di riferimento è il regolamento REACH, che per alcuni ftalati considerati particolarmente critici stabilisce una concentrazione massima dello 0,1 per cento in peso sul materiale nei prodotti di largo consumo. Un limite pensato non per indicare una soglia di tossicità immediata, ma per contenere l’esposizione cronica della popolazione. In altre parole, non serve a stabilire se un singolo capo sia “pericoloso” nell’immediato, ma a ridurre il carico complessivo di una sostanza nel tempo, tenendo conto del fatto che gli stessi composti possono provenire da più fonti e che il contatto con oggetti come gli abiti è quotidiano, ripetuto e spesso prolungato. È proprio questa continuità dell’esposizione, più che l’evento isolato, a rappresentare il principale fattore di rischio dal punto di vista della salute pubblica.
PFAS
Accanto ai plastificanti, un’altra categoria di sostanze che può essere riscontrata negli abiti di fast fashion è quella dei PFAS. Secondo il report di Greenpeace queste sostanze sono state rilevate in particolare in giacche e indumenti tecnici, con concentrazioni che in alcuni casi risultano estremamente elevate, fino a oltre 3.000 volte superiori alle soglie considerate accettabili. In questo caso, il dato problematico non riguarda tanto la frequenza, quanto l’entità delle concentrazioni rilevate, che segnala una criticità rilevante dal punto di vista sanitario.
I PFAS sono sostanze chimiche per- e poli fluoroalchiliche dove, con “per-”, si indica che quasi tutti gli atomi di idrogeno di una catena di carbonio sono stati sostituiti da atomi di fluoro; con “poli-” che la sostituzione riguarda solo una parte della catena. In entrambi i casi si formano legami carbonio-fluoro molto forti, difficili da rompere, che rendono queste sostanze particolarmente resistenti all’acqua, allo sporco e alla degradazione. Questa vasta famiglia di composti chimici viene utilizzata quindi per conferire ai materiali caratteristiche come impermeabilità, resistenza alle macchie, allo sporco e all’acqua ed è per queste ragioni che nell’abbigliamento trova impiego soprattutto in giacche impermeabili, cappotti, piumini, capi sportivi ma anche in tessuti trattati per essere antimacchia o più facili da pulire.
La loro diffusione è legata all’elevata efficacia: una volta applicati, questi trattamenti rendono i tessuti altamente performanti anche in condizioni estreme. Dal punto di vista chimico, però, i PFAS presentano una caratteristica che è alla base delle principali preoccupazioni sanitarie e ambientali: sono estremamente stabili. Proprio per questo vengono spesso definiti “forever chemicals”, sostanze che non si degradano facilmente e che possono persistere a lungo nell’ambiente e, in parte, anche nell’organismo umano. Una proprietà utile dal punto di vista industriale, ma problematica quando l’esposizione diventa ripetuta e prolungata.
- Rischi per l’organismo. Diversi studi scientifici hanno associato l’esposizione a PFAS a una serie di effetti sulla salute. In particolare, la letteratura indica possibili alterazioni del sistema immunitario, con una ridotta risposta ai vaccini, disturbi della funzione tiroidea, effetti su fegato e reni, problemi riproduttivi e, per alcuni composti specifici, un aumento del rischio di alcune patologie croniche, inclusi determinati tumori. Anche in questo caso, non si tratta necessariamente di effetti legati a esposizioni acute, ma di conseguenze che possono emergere nel tempo, in seguito a un’esposizione continua a basse dosi. Come per i ftalati, l’attenzione è particolarmente elevata quando l’esposizione riguarda bambini e adolescenti, sia per la maggiore vulnerabilità degli organismi in fase di sviluppo, sia perché molti capi trattati con PFAS, come giacche e abbigliamento tecnico, sono pensati anche per l’uso infantile. La combinazione tra contatto diretto con il corpo, uso quotidiano e persistenza delle sostanze rende questo tipo di esposizione oggetto di crescente attenzione da parte delle autorità sanitarie.
- Limiti consentiti e perché. Per i PFAS il quadro normativo è in rapida evoluzione. A livello europeo, l’approccio regolatorio si basa sul principio di precauzione, proprio a causa della persistenza di queste sostanze e delle difficoltà nel prevederne gli effetti a lungo termine. I limiti fissati non mirano a definire una soglia di sicurezza assoluta, ma a ridurre il più possibile l’esposizione complessiva della popolazione, in particolare attraverso prodotti di uso quotidiano come gli abiti. Nell’ambito del regolamento REACH, l’Unione europea ha già introdotto una restrizione specifica per i prodotti tessili e l’abbigliamento che entrerà in vigore a partire dal 10 ottobre 2026. Da quella data, non sarà consentita l’immissione sul mercato di articoli tessili destinati al pubblico che contengano o 25 parti per miliardo (ppb) di PFHxA e cioè una delle sostanze appartenenti alla famiglia dei PFAS, tra i composti più stabili e usati nei trattamenti impermeabilizzanti dei tessuti, che tendono a persistere a lungo nell’ambiente; oppure 1.000 ppb per la somma delle sostanze correlate al PFHxA. Si parla di somma per poter comprendere tutte le sostanze chimiche che non nascono PFHxA ma che possono trasformarsi nel tempo: alcune molecole alcune molecole non sono PFHxA di partenza ma durante l’uso, il lavaggio o la degradazione nell’ambiente si rompono e finiscono per liberare PFHxA. Valori che corrispondono rispettivamente a 0,025 e 1 milligrammo per chilo di materiale. In questo contesto, il superamento delle soglie di riferimento non segnala un rischio immediato legato al singolo capo, ma indica una concentrazione non ritenuta compatibile con un uso ripetuto nel tempo. È ancora una volta la continuità dell’esposizione, sommata alla capacità dei PFAS di accumularsi e persistere, a rappresentare il nodo centrale dal punto di vista della salute pubblica. Il confronto con soglie future non indica una violazione di una legge già in vigore, ma serve a mostrare quanto le concentrazioni rilevate siano lontane dai livelli che le autorità europee considerano compatibili con la tutela della salute. Le restrizioni che entreranno in vigore dal 2026 rappresentano infatti il punto di arrivo di valutazioni scientifiche già consolidate
Metalli pesanti
Oltre a ftalati e PFAS, il report Greenpeace segnala anche la presenza di metalli pesanti in alcuni dei capi analizzati. In particolare, nelle analisi chimiche sono stati rilevati piombo e cadmio, due elementi noti per la loro tossicità, in concentrazioni superiori ai limiti previsti dalla normativa europea per i prodotti di consumo. Anche in questo caso, il report sottolinea come tra i capi interessati figurino articoli destinati a bambini e adolescenti, un aspetto che accresce l’attenzione sul potenziale impatto sanitario.
DI che cosa si tratta? I metalli pesanti sono elementi chimici naturalmente presenti nell’ambiente ma che diventano problematici quando vengono utilizzati o concentrati nei processi industriali. Nel settore tessile possono essere impiegati o rimanere come residui soprattutto nei coloranti, nei pigmenti e nei trattamenti delle superfici, oppure essere presenti in stampe decorative, decorazioni metalliche, bottoni, zip e accessori. La loro presenza non è legata al tessuto in sé ma alle fasi di lavorazione e finissaggio.
- Rischi per l’organismo. Dal punto di vista sanitario, la preoccupazione riguarda il fatto che alcuni metalli pesanti possono accumularsi nell’organismo e provocare effetti tossici anche a basse dosi se l’esposizione è ripetuta nel tempo. Secondo diverse fonti scientifiche, il piombo è una neurotossina che può causare danni al cervello e ai reni, interferire con la sintesi dell’emoglobina e influenzare lo sviluppo neurologico nei bambini. Per il cadmio, ricerche di salute pubblica indicano che si accumula nei reni e nelle ossa, con effetti su funzione renale, metabolismo osseo e potenziali associazioni con malattie croniche e tumori.
- Per il piombo, la normativa vieta l’immissione sul mercato di articoli che comportino un’esposizione non sicura, con restrizioni specifiche per i materiali a contatto prolungato con il corpo e per i prodotti destinati ai bambini. In diversi casi, i limiti applicati negli articoli di consumo si collocano nell’ordine di decine o centinaia di milligrammi per chilo, a seconda del materiale e dell’uso previsto, proprio per ridurre il rischio di assorbimento attraverso il contatto o il contatto mano-bocca. Per il cadmio, REACH fissa un limite massimo di 0,01 per cento in peso (pari a 100 mg/kg) nei materiali plastici e sintetici utilizzati negli articoli destinati al pubblico, inclusi indumenti, accessori e calzature. Si tratta di una soglia particolarmente bassa, introdotta per evitare l’accumulo di un metallo che tende a concentrarsi subito nell’organismo, soprattutto nei reni e nelle ossa.
Oltre alle famiglie di sostanze emerse nei report più recenti, altre evidenze scientifiche su abbigliamento a basso costo e tessuti acquistati online hanno documentato la presenza di composti chimici di potenziale rilievo sanitario. In uno studio su vestiti di donne incinte, bambini e neonati, la formaldeide è stata rilevata in circa il 20 % dei campioni analizzati, con livelli medi di circa 9 mg/kg nei tessuti in cui era presente, una percentuale non trascurabile considerando l’uso prolungato degli abiti a diretto contatto con la pelle. Si tratta di un composto chimico usato in diversi processi industriali come quello tessile,soprattutto per rendere i tessuti più resistenti alle pieghe, allo stoccaggio e alle muffe. Nei vestiti può rimanere come residuo di produzione, in particolare nei capi nuovi ed è nota per la sua capacità di irritare la pelle e le vie respiratorie.
Allo stesso modo, i coloranti azoici, molto utilizzati nell’industria tessile per ottenere colori intensi e duraturi, soprattutto rossi, arancioni, gialli e neri, possono degradarsi e rilasciare ammine aromatiche, una classe di composti chimici legati a rischi cancerogeni e presenti in una quota significativa di prodotti tessili nel mercato globale.
Stato “iniziale” dei capi ed esposizione cumulativa
Dal punto di vista della salute l’abbigliamento rappresenta una via di esposizione peculiare, diversa da quella alimentare o ambientale. I capi vengono infatti indossati per periodi spesso molto prolungati, per molte ore consecutive, e in condizioni fisiologiche come temperatura cutanea elevata, sudorazione e attrito meccanico che possono favorire la migrazione di sostanze chimiche dai materiali verso la superficie della pelle. Questo aspetto è particolarmente rilevante per i composti che non risultano stabilmente legati alle fibre tessili e che possono essere rilasciati progressivamente durante l’uso. Un ulteriore elemento riguarda lo stato “iniziale” dei capi.
Gli indumenti appena prodotti possono contenere residui di sostanze utilizzate nelle fasi di tintura, finissaggio e trattamento funzionale dei tessuti. In assenza di lavaggi preliminari questi residui possono risultare più concentrati rispetto ai capi già utilizzati, determinando una fase di esposizione potenzialmente più elevata nelle prime occasioni di utilizzo, soprattutto nel caso di abiti aderenti o a diretto contatto con aree sensibili del corpo. Non meno importante è l’aspetto dell’esposizione cumulativa. In molti casi non entriamo in contatto con una singola sostanza o attraverso un unico capo ma con una pluralità di materiali indossati contemporaneamente tra indumenti, intimo, calzature e accessori, ciascuno potenzialmente trattato con composti diversi.
È anche questa combinazione di contatto prolungato, ripetizione quotidiana e sovrapposizione di fonti a costituire uno dei principali elementi di attenzione dal punto di vista della salute, in particolare per le fasce di popolazione più vulnerabili, come bambini e adolescenti.
Foto di Christina Victoria Craft su Unsplash
