Viaggio tra i freelance: quali condizioni per i creativi digitali?

di Cristin Cappelletti

"Sono precaria da vent'anni", dice Valeria, 46 anni, giornalista professionista, freelance da sempre suo malgrado. Come lei, migliaia di altri creativi digitali lavorano a cottimo e senza tutele contrattuali. Sono web content editor, designer, grafici pubblicitari, copywriter e tante altre figure professionali per le quali il vecchio rigido mercato del lavoro non funziona più.


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 Credits/Emma Bubola |

 

In Italia, i freelance come Valeria sono oltre 1 milione e 400mila, secondo le stime di A.C.T.A., l'associazione italiana dei freelance. Vivono in bilico tra flessibilità e precarietà, autonomia e sfruttamento. Secondo lo studio europeo I-WIRE (Independant Workers and Industrial relations in Europe), sono lavoratori con un grado elevato di istruzione ma con redditi molto bassi e riescono a lavorare solo in modo discontinuo. Il 76,5% degli intervistati ha almeno una laurea, il 20,2% anche un dottorato, ma nel 23% dei casi il loro reddito lordo non supera i 10.000 euro annui.

 

Trattandosi di collaborazioni occasionali o a progetto, chi vuole mantenersi da solo deve svolgere più lavori: l’80% dei freelance italiani rientra nella categoria degli slash worker, sia per la necessità di migliorare il proprio reddito, sia per la difficoltà di inquadrare il proprio lavoro sotto una etichetta ben precisa. Chiara, 31 anni, della provincia di Bologna, ne è un esempio. Professional organizer, project manager e insegnante di pattinaggio: tre lavori svolti da freelance con la sua partita iva. "È molto faticoso – racconta Chiara – ma riesco a stare a galla".

 

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Essere freelance significa anche non avere una sede di lavoro fisica. Fuori da redazioni e uffici, si è lontani dal contesto sociale professionale di riferimento. Valeria racconta quanto le sia pesato questo isolamento. Solo dopo molti anni è riuscita a ricavarsi uno studio in casa. Ma la giornalista professionista ci confida anche che nell'ambito editoriale capita spesso di non essere retribuiti in modo adeguato, soprattutto perché non esiste un tariffario di riferimento: "Il volontariato è una scelta, non viene imposto", si sfoga.

 

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Andare a caccia di annunci in linea con le proprie specificità professionali per un freelance è parte del lavoro stesso. Questo richiede ore di navigazione su tutte quelle piattaforme che tentano di fare incontrare domanda e offerta, siti come Lavoricreativi, Freelanceer, Crebs, Fiverr dove la concorrenza è tanta e chi offre lavoro può permettersi di fissare il compenso al ribasso, distruggendo il mercato di riferimento.  Accettare queste condizioni per un freelance significa spesso svendere il proprio tempo e la propria professionalità.

 

Anche Achille, giovane designer di 26 anni, si trova nella stessa condizione. Secondo lui, l'università non riesce a preparare gli studenti ad affrontare la complessità di questo mondo del lavoro frammentato e dinamico, poco trasparente e senza inquadramenti contrattuali. Achille confessa di aver speso molto tempo col capo chino su produzioni che non hanno mai visto la luce: "Lavoravo non stop per rispettare le consegne, ma spesso i committenti sparivano senza pagarmi".

 

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Tra i problemi più urgenti, c'è quello dell'imposizione fiscale insieme alla "trappola del regime agevolato", come la definisce Anna Soru, presidente dell'associazione dei freelance A.C.T.A. "Aprono la partita Iva perché questo è l'unico modo di lavorare e non sono abituati a definire le proprie tariffe", dice Soru. "Quando finisce il periodo iniziale con il regime fiscale agevolato, i professionisti si ritrovano con un'imposizione non più sostenibile per loro: è un sistema malato".

 

La presidente, intervistata da OPEN, insiste anche sul sistema di welfare, a suo avviso "totalmente inadeguato, se non inesistente. È un vecchio sistema chiuso e rigido – sostiene Soru – non più adatto a un mondo del lavoro sempre più frammentato e fluido". 

 

Le donne sembrano essere la categoria più svantaggiata. Come conferma Anna Soru, sono penalizzate soprattutto dalla mancanza di una normativa che regoli il diritto alla maternità, come invece accade per i lavoratori dipendenti. Valeria, non a caso, è riuscita a essere una lavoratrice dipendente solo quando è stata chiamata per sostituzioni maternità: "ho rinunciato a fare figli per permettere ad altre donne di diventare madri".

 

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