Sedazione profonda continuata, la via italiana al fine vita

Dal 2016 esiste il testamento biologico e i malati terminali possono ricorrere a un trattamento a cui può accedere solo un numero ridotto di pazienti

Nonostante il dibattito decennale e nonostante i sondaggi sostengano che oltre il 70% degli italiani sia favorevole alla libera scelta sul fine vita, poco è cambiato. In Italia, ancora oggi, la cosiddetta dolce morte – il suicidio assistito o l'eutanasia – è vietata e chi vuole ricorrervi è costretto ad andare clandestinamente in Paesi in cui invece la pratica è legale, sostenendo tutte le spese del caso, che ammontano a decine di migliaia di euro. Pochi mesi fa la Corte Costituzionale ha chiesto al Parlamento di intervenire, ma nonostante i richiami nulla si sta muovendo davvero e il Governo sembra intenzionato a non prendere una posizione favorevole sulla questione.


Una pratica ammessa attualmente dalla legislazione italiana è quella della sedazione profonda continuata, che nulla ha a che vedere con il suicidio assistito o con l'eutanasia e che non può essere applicata a tutti. Viene praticata in poche centinaia di strutture in Italia – attualmente ci sono solo 230 in tutto il Paese, i cosiddetti hospice – e, in sostanza, è un trattamento sanitario palliativo al quale il malato terminale può ricorrere, a certe condizioni, per arrivare alla morte soffrendo il meno possibile.


La morte avviene per via naturale e il trattamento può essere richiesto solo se un paziente si trova «nell’imminenza della morte, presenta sintomi refrattari ad altri trattamenti e ha espresso al medico un consenso informato valido» o, se in stato vegetativo, in presenza del consenso dei familiari. Per capire meglio che cos'è la sedazione profonda continuata, chi può farvi ricorso e che limiti ha il trattamento, abbiamo raggiunto il dottor Roberto Moroni Grandini, medico esperto di terapia del dolore e medicina palliativa responsabile di Cascina Brandezzata, l’Hospice del Policlinico di Milano.

Dottor Moroni, che cos'è la sedazione profonda continuata?

«La sedazione palliativa profonda è riservata culturalmente, da un punto di vista normativo, a un malato oncologico o non oncologico terminale che presenta sintomi refrattari. Il caso di Eluana Englaro e anche di Fabiano Antoniani non rientrerebbero in questa fattispecie perché non presentavano sintomi che seppur trattati nel migliore dei modi possibili, non rispondono alle cure»

Chi può richiederla?

«Il malato oncologico in fase avanzata di malattia presenta una pletora di sintomi difficilmente trattabili – la dispnea, l'agitazione psico-motoria, la nausea o il vomito nei pazienti con occlusione intestinale – può richiedere un trattamento elettivo o in urgenza per sedare non più il sintomo ma la percezione del sintomo. La sedazione palliativa profonda si applica per non fare più soffrire un paziente che sta già soffrendo troppo per un sintomo che oggi non siamo più in grado di trattare. Il dolore raramente entra nei sintomi che richiedono questa opzione, perché oggi abbiamo molti strumenti per trattarlo abbastanza bene, per cui è un trattamento da extrema ratio, in qualche modo».

Si riesce ad accedere in maniera semplice al trattamento?

«Qui c'è un problema culturale, perché la sedazione profonda palliativa viene effettuata da medici che sono formati per le cure palliative, preparati a trattare sintomi difficili e che hanno bene in mente i principi della bioetica: i trattamenti devono fare del bene, essere proporzionati e rispettosi delle decisioni autonome del paziente. Molto spesso, però, si arriva al tentativo estremo di controllare dei sintomi e il paziente resta esposto a un grado di sofferenza che è inaccettabile per un malato terminale. Questo problema richiede una grande formazione per i medici – attualmente l'università sta mettendo in campo dei corsi di formazione e ospedali come il nostro si stanno attrezzando – ma siamo comunque agli albori, nonostante la legge per le cure palliative sia del 2010».

Perché?

«Perché c'è una carenza strutturale per le cure palliative, che sono particolarmente forti in alcune regioni del Nord come la Lombardia e l'Emilia Romagna, e che sono particolarmente carenti al Sud, probabilmente per una ragione sociologica e antropologica. Nel senso che al Sud esiste ancora una famiglia che è in grado di accogliere il malato in fase terminale avanzata mentre al Nord abbiamo famiglie mononucleari che rendono più difficile la gestione di questa fase in famiglia. Certo, mancano strutture: una città come Milano ha una dozzina di hospice, che non sempre sono sufficienti a esaudire la domanda. E poi c'è un altro problema, che è quello dell'assistenza domiciliare. Per il paziente terminale, nella mia testa, che è la testa di chi ragiona da medico palliativista, la morte è un evento esistenziale che può accadere in casa, però perché accada a casa, come da volontà del paziente, occorre che qualcuno assista tra le mura domestiche il paziente e da questo punto di vista c'è una grande carenza di servizi. Proprio in questi giorni, però, a Milano si sta creando una rete di assistenza domiciliare per le cure palliative in modo tale da poter garantire un'offerta assistenziale adeguata a una domanda così forte».

Secondo lei, l'attuale legislazione sul fine vita ha qualche lacuna?

«Direi che esiste un vuoto legislativo, normativo e, forzerei, anche di tipo etico, nel senso che i principi della bioetica ci insegnano a rispettare la volontà del paziente, il che vuol dire rispettare l'autodeterminazione del paziente, e da questo punto di vista il Paese ha bisogno di cambiare ancora. Questo non vuole dire che io sia favorevole a un'apertura di tipo eutanasico perché questo richiede una riflessione più profonda e anche diversa. Anche da parte dei palliativisti occorrerebbe sedersi a tavolino e ragionare, senza ipocrisie e senza mistificazioni, su che cosa vuol dire rispettare le volontà e l'autodeterminazione del paziente e di come le richieste di chi non vuole più vivere debbano essere prese in debita considerazione. Del resto la nostra storia ci insegna, sin dall'antica Grecia, che l'autodeterminazione deve prendere in considerazione il rispetto di queste volontà».

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