Il posto fisso non esiste più? I dati confermano il detto popolare
42 giovani lavoratori su 100 tra i 15 e i 29 anni hanno un contratto a tempo determinato. Nel 2014 erano 33, una crescita dunque del 27%. Percentuali a parte siamo passati da 886mila nel 2014 a 1,24 milioni nel 2018 (dati aggiornati al II trimestre). Nella fascia tra i 30 e i 34 la crescita è stata ancora maggiore, del 32%. La quota diminuisce con il crescere dell'età arrivando aun 5% in quella degli over 55, ma questo non significa che con il passare del tempo un lavoro a termine si trasformi in un lavoro fisso. Significa più semplicemente che il mondo del lavoro sta cambiando e che il modello che le generazioni precedenti conoscevano oggi non esiste più per chi si affaccia sul mercato del lavoro. E vedremo perché.
Sono questi alcuni dei numeri contenuti nell'ultimo rapporto del CNEL che analizza diversi aspetti critici dell'occupazione in Italia. E il dato sui giovani colpisce molto, proprio perché è indicativo di un cambiamento in corso che sembra difficile da arrestare, come sembrano mostrare i primi dati sul mercato del lavoro dopo il Decreto dignità. Il posto fisso non esiste più, si sente spesso dire, e questi numeri letti sull'oggi e in prospettiva sembrano confermare la vulgata comune.Se prendiamo il totale dei lavoratori in Italia sono solo 13,7 su 100 quelli con un contratto temporaneo, molti meno di quelli che ci si potrebbe aspettare, ma sono in aumento del 34% rispetto a cinque anni fa. Il trend di crescita è quindi molto chiaro e si concentra soprattutto sui nuovi ingressi.
Pensiamo soltanto che nella fascia d'età tra i 55 e i 64 annila crescita negli ultimi cinque anni è stata "solo" del 22% e tra i 44 e i 54 del 17%. Venendo ai numeri assoluti,gli under 30 sono cresciuti del 41%, quelli tra 30 e 34 anni del 28,6%, tra i 35 e i 44 anni del 32%, tra i 45 e i 54 del 24,5% (la crescita minore) e del 53,3% quelli sopra i 55 anni, ma qui i numeri assoluti sono molto più bassi.L'aumento degli ultimi anni è stato generalizzato relativamente al titolo di studio posseduto, aumentando sia per chi ha solo la licenza media che per chi ha una laurea.
I settori di crescita sono soprattutto quelli che hanno una forte componente stagionale e che anche intuitivamente prediligono rapporti a tempo. Parliamo degli alberghi e dei ristoranti (+42,8%) e dell'agricoltura (+29,3%). Ma colpisce soprattutto come il tasso di crescita maggiore si ritrova nell'industria con un +60%, oltre un quarto della crescita totale degli occupati a termine. Allo stesso modo cresce del 41% la componente dei servizi alle imprese. Due elementi che aiutano a comprendere come l'aumento del lavoro a tempo è sì probabilmente legato anche ai cambiamenti normativi che ne hanno reso più facile l'utilizzo, oltre che all'abolizione del lavoro a progetto e poi dei vecchi voucher, ma soprattutto è legato ai cambiamenti in corso nel sistema economico.
E gli stessi ricercatori del CNEL accennano a ragioni di tipo ciclico e congiunturale, soprattutto all'incertezza, come cause di questa crescita. Ma si potrebbe fare un passo in più. Potremmo iniziare a parlare apertamente di un cambiamento strutturale, e non solo momentaneo. Mercati globali che cambiano, bisogni dei consumatori in continuo mutamento e sempre stimolati, tecnologia che consente velocità di innovazione molto più rapida del passato sono elementi che non si possono ignorare. Così come non si può ignorare, e spesso è ancora un tabù, che le nuove generazioni stesse considerano un valore, soprattutto a fronte di un alto livello di competenze, cambiare spesso lavoro.
E qui entra in gioco il dato forse più interessante dell'analisi del CNEL. Negli ultimi 5 anni il passaggio a tempo indeterminato al termine di un contratto tempo determinato è diminuito del 19%. 15 contratti a termine su 100 diventano a tempo indeterminato. Mentre la probabilità di trovare un nuovo contratto a tempo determinato è cresciuta del 12,8%, portando a 64 il numero di contratti a termine su 100 che portano aun nuovo contratto a termine. Ulteriore segnale dei cambiamenti strutturali del mercato del lavoro.
A oggi l'Italia è quasi totalmente impreparata a questo scenario. Questo sia dal punto di vista del welfare, ancora incentrato sul modello del posto fisso, che da quello delle imprese, che investono solo sui dipendenti a tempo indeterminato. Stesso discorso per i sindacati, che faticano a rappresentare chi non è standard o per il sistema bancario, che si guarda dal ripensare il sistema di concessione dei finanziamenti a chi non ha un contratto permanente. Il Decreto Dignità probabilmente non aiuterà, perché non farà altro che aumentare i contratti a termine più precari, quelli inferiori ai 12 mesi (che hanno anche effetti negativi sulla produttività) invece che rafforzare quelli più lunghi, che consentono maggior formazione, progettualità, investimento. Da qui bisognerebbe partire per rendere il lavoro a termine una opportunità, come già e per molti, e non una condanna. E questo è impossibile senza un profondo cambiamento di mentalità:iniziamo da questo.