«Sono il capitano della mia anima»: la poesia che accompagnò Nelson Mandela durante la sua prigionia

«Invictus» era stata scritta dal poeta inglese William Ernest Henley nel 1875. A 25 anni dalla fine dell’apartheid il ricordo della prigionia di Mandela e di quel poema che diventò un simbolo della resistenza di “Madiba” e dello spirito umano

Venticinque anni fa in Sudafrica finiva l’apartheid e Nelson Mandela veniva eletto presidente. Mandela è stato uno dei leader politici più amati del ventesimo secolo. Premio Nobel per la pace nel 1993, la sua battaglia contro l’apartheid e gli anni di reclusione lo hanno fatto diventare un simbolo della lotta al razzismo. Militante e attivista, la sua resistenza contro il governo segregazionista del Sudafrica è durata quasi cinquant’anni, di cui 27 passati in prigione.


In quei lunghi anni di prigionia, iniziati con l’arresto del 1964, dopo aver organizzato azioni militari e di sabotaggio verso il governo sudafricano, la sua resistenza passiva accrebbe la popolarità dell’African national congress (Anc), il partito sudafricano che aveva come obiettivo quello di porre fine alle ingiustizie della segregazione razziale.


Dal profondo della notte che mi avvolge,
buia come il pozzo più profondo che va da un polo all’altro,
ringrazio gli dei chiunque essi siano
per l’indomabile anima mia

Ma in quegli anni di prigionia Mandela ha un compagno di reclusione speciale, un amico vicino che lo accompagna in quelle sofferenze: è William Ernest Henley. Il poeta e scrittore britannico, morto nel 1903, condivideva con Mandela una vita fatta di stenti e una forza d’animo fuori dal comune, una forza che Henley riversò in un poema che diventò non solo il riassunto della sua esistenza, ma anche il conforto del futuro presidente sudafricano durante gli anni passati nella cella di Robben Island. 

Nella feroce morsa delle circostanze
non mi sono tirato indietro né ho gridato per l’angoscia.
Sotto i colpi d’ascia della sorte
il mio capo è sanguinante, ma indomito.

«Sono il padrone del mio destino: io sono il capitano della mia anima», sono questi i versi della poesia che accompagnano la reclusione di “Madiba” – era il nomignolo con cui era noto Mandela –  a pochi chilometri da Città del Capo. Un inno alla resilienza dello spirito umano impressa da Henley in sedici versi durante la sua permanenza in ospedale nel 1875.

A 12 anni Henley deve convivere con una tubercolosi che non gli dà scampo, tanto da portarlo in giovane età all’amputazione di una gamba. Con un arto in meno Henley riesce comunque a continuare gli studi e a trasferirsi a Londra dove inizia a lavorare come giornalista. 

Ma la malattia non gli dà tregua, i giorni in ospedale sono tanti, e anche il piede destro rischia di venire amputato, ma Henley si oppone e decide di sottoporsi a delle cure sperimentali che, dopo tre anni in ospedale, gli permettono di continuare la sua vita. 

Oltre questo luogo di collera e lacrime
incombe solo l’Orrore delle ombre,
eppure la minaccia degli anni
mi trova, e mi troverà, senza paura.

In quella Invictus, Henley sembra mettere tutto l’amore che ha per la vita e la credenza che lo spirito umano vinca su tutto. Un mantra che Mandela ripete tutti i giorni dalla sua cella in Sudafrica, mentre guarda al di là delle sbarre che per 27 anni ne limitano il corpo, ma non ne contengono lo spirito.

Non importa quanto sia stretta la porta,
quanto piena di castighi la vita.
Io sono il padrone del mio destino:
io sono il capitano della mia anima.

Sessant’anni dopo la sofferenza di un’artista e poeta britannico, impressa su carta, diventa il motore del coraggio di un altro uomo che in quelle parole rivede l’invincibilità dell’animo umano di fronte alle difficoltà di una vita dedicata al servizio degli altri. 

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