Cosa ho imparato sull’Europa (e sul potere del pop) grazie all’Eurovision

di OPEN

Il conduttore radiofonico ha seguito la manifestazione musicale a Tel Aviv, e racconta ai lettori di Open il valore, personale e politico, di un evento che ridisegna i confini del continente europeo

Amo pranzare da solo. Mi piace il tempo che trascorro con la sola compagnia dei miei pensieri. A volte lascio andare addirittura loro e mi metto in ascolto di quelli degli altri.Come adesso, davanti alle uova più buone del mondo, che torno a mangiare in questo posto che,giustappunto, si chiama Benedict, in Rotchild, Tel Aviv. Affondo la forchetta nel tuorlo caldo e nel formaggio, e origlio la conversazione delle due ragazze sedute al tavolo accanto. La ragazza bionda, in t-shirt, gonna lunga colorata e Adidas, porta un foulard attorcigliato sulla testa, a nascondere dei capelli biondo cenere. L’altra, di fronte a lei, esibisce invece una chioma color castagna riccia e indomabile, e degli orecchini a cerchio enormi. Sembrano molto amiche, quasi sorelle da come ridono e ammiccano in totale sintonia.


Questa è la mia ultima mattina a Tel Aviv, ho l’aereo alle 18, per cui ho deciso di lasciare il gruppo con cui sono venuto a seguire l’Eurovision, ritagliandomi un momento per me. E ora mi viene un po’ di quella malinconia del dopo festa. E mi soffermo a immaginare chi siano queste giovani, e che vita le attenda una volta fuori di qui. In moltissimi oggi torneranno alle personali vicende, e in breve la serata di ieri – compreso il secondo posto di Mahmood – sarà uno dei tanti ricordi di cui parlare a cena con gli amici e di cui rievocare dettagli e aneddoti.


Il sogno di un “Sanremo internazionale”

Penso a tutti coloro che sono venuti ad esibirsi, per rappresentare la propria nazione, a chi ha viaggiato anche da molto lontano solo per sostenerli (partecipa anche l’Australia, per dire) e a tutti coloro che l’hanno guardata ieri sera. Dicono duecento milioni di persone. È un numero grosso. Ma a colpirmi è soprattutto il fatto che sono le persone più diverse tra loro che si possa immaginare. Per latitudine, per cultura, per stile di vita. Tutti riuniti per un attimo, e ora di nuovo tutti lontani, come in una diaspora globale. C’è qualcosa in questa manifestazione, inventata da un italiano che sognava un “Sanremo internazionale”di cui subisco il fascino, ma che non riesco bene a riconoscere, identificare.Un miscuglio di sonorità che spaziano dal pop molto british al folk chiaramente balcanico, all’elettronica tutta tedesca fino alla progressive decisamente baltica.

Ma poi, come accade quest’anno, la Svezia presenta un cantante di colore con una voce da Marvin Gaye, il coro Gospel e un pezzo soul da pelle d’oca; la Spagna sfodera un progetto ballabilissimo come lo era il primissimo Robbie Williams, e la Grecia sfoggia una coreografia surreale che nemmeno Lady Gaga. E allora si confondono le carte, e anche i cliché che abbiamo in testa, e diventa più difficile riconoscere e identificare – e per capire devi fare tabula rasa delle idee che hai di quel determinato Paese e del mondo che si porta dietro, e ricominciare da zero a guardare l’altro. D’altra parte, agli occhi di chi ci giudica conoscendo Al Bano e Toto Cutugno, cosa c’è di meno italiano di un ragazzo dai tratti mediorientali che canta frasi in arabo?Ecco, forse è questo che mi piace. Che spiazza e sorprende.

Scoprirsi nazionalisti nei gusti

Certo, c’è da dire che Eurovision è la cosa più camp che esista, che è un cortocircuito di abiti kitsch, di lamé imbizzarrito ed extention acriliche che nemmeno la trasmissione di drag Queen di RuPaul su Netflix. Ma c’è dell’altro. Perché mentre ridi a crepapelle per l’acconciatura, il trucco e gli stivali quasi ascellari di quella tizia che si dimena sulle note di una balalaika mixata con la cassa in quattro, e ti domandi come abbia potuto, sapendo di venire a cantare fino a qui, scegliere proprio quello stile tra mille, sbagliando tutto lo sbagliabile in termini di interpretazione, coreografia, e messa in scena (per me è un no, non, nein, het, o come dicono in Israele lo), ti rendi conto di come ciò che è bello per te dagli altri possa non essere capito, ma dai tuoi connazionali sì. Di come ogni popolo abbia una storia, un percorso e dei tempi per arrivare laddove desidera. E che poi ci sono approdi a cui tutti desiderano ugualmente arrivare, ma la differenza la fa da dove parti: dalla storia che ti ha preceduto e da quello che ti ha lasciato in eredità. In tema di diritti come sulla gestione della “spinzettatura” delle sopracciglia maschili.

E di sicuro, tutti i partecipanti all’Eurovisionvogliono far parte di qualcosa di più grande dei loro confini. Qualcosa che tenga insieme le distanze geografiche e quelle culturali. Fa impressione che tutti vogliono farne parte, nonostante il suo nomeracconti della più vituperata istituzione del Novecento, da cui tutti sembrano voler fuggire. Invece quivogliono sedersi allo stesso tavolo e spartire lo stesso pane, che prima di tutto è quello della accoglienza delle diversità, e dell’inclusione.

Le rivoluzioni culturali del pop

Attraverso il pop, la storia lo insegna, si sono fatte molte rivoluzioni culturali. E la musica qui fa lo stesso.Israele, il Paese che ha vinto l’anno scorso – ragione per cui siamo qui ora: chi vince ospita l’evento l’annosuccessivo-aveva portato sul palco una ragazza bruttina e sovrappeso, con un piglio indipendente e assertivo, che cantava «wonder woman, non dimenticare mai che sei una creatura divina, e tu, ragazzo, seistupido come il tuo smartphone»: Netta Barzilai, cantante e musicista che ha imparato a fare beat box, midicono, durante i due anni di servizio di leva obbligatorio.

Un’immagine di donna non convenzionale, datele tristi convenzioni che ci siamo scelti. Nel 1998 vinceva sempre Israele, con la canzone Diva, cantata daDana International, una transessuale. In un Paese con una fetta di popolazione molto religiosa, e moltobigotta. Un po’ come da noi. La prima sera di questa edizione si è aperta con la sua esibizione. E uno dei presentatori dell’evento, forse il più bel volto tv di questo millennio, Assi Azar, ha dichiarato che vent’anni fa,guardando questa figura di donna “non biologica” cantare e vincere, ha deciso che quello che sentiva nondoveva restare nascosto, e ha avuto il coraggio, successivamente, di fare coming out.

L’inclusione non riguarda solo l’orientamento sessuale o la questione del body shaming, ma anche quella di un passatocompromettente. Durante la finale, ieri sera, ogni nazione attribuiva i punteggi di preferenza. La giuriadelegata di ogni Stato assegnava dodici voti, da 1 a 12, laddove 12 rappresenta il tributo di massima stima. Quando è stato il momento della Serbia, i suoi dodici punti li ha dati alla Macedonia del nord.

Questo noncambia di una virgola il loro recente e doloroso passato, ma anzi, proprio per questo, assume un valoreimportante su un piano: la musica leggera, che non ha conseguenze dirette sulla politica, e quindi, forse, ancora più importante. Una manifestazione di stima gratuita. E anche un modo per ricordare a tutti noi unavicenda storica davanti alla quale in molti sono stati con le mani in mano, e che presto hanno volutodimenticare.

Dal Manzanarre al Reno

L’Eurovision è come l’appuntamento annuale che si danno tutti questi Paesi, per fare il punto, perraccontarsi come e dove sono, un po’ come le due ragazze sedute accanto a me nel bar di RothschildBoulevard. Nel frattempo ho scopertoche sono state compagne di università a Londra, che una è ebrea e l’altra tedesca. Ma evidentemente con origini molto più a sud.E mi sembra che involontariamente rappresentino al meglio questa festa dei popoli che in molti desideranoogni anno. Anche se noi – ripiegati sul nostro ombelico, noi che non sappiamo mai bene l’inglese, e non ciinteressiamo mai molto delle vicende estere – non lo capiamo, questo evento è amatissimo dalla Norvegiaalla Turchia; o come scriveva qualcuno “dal Manzanarre al Reno”.

E anche io amo molto l’Eurovision. Un po’come per il babaganoush che ho appena divorato, che mi si piazza sempre sullo stomaco, ma che è troppo buono per rinunciarvi. Ogni anno mi dico quanto è lunga la serata della finale, e poi chi se ne frega. Mapoi eccomi qua. In tempi in cui la politica, qui in Israele come da noi in Europa, non ci rende molto fieri per quel cheproduce, vedo la gente, le persone, che non corrispondono sempre ai governi che dovrebberorappresentarle.

E penso che se è vero che questo è un momento in cui sta vincendo chi parla alla famosa pancia del Paese (la mia di pancia ora è stra-piena)mentre altri ancora provano a far ragionare i cittadinicon la testa, esiste un popolo che pensa con il cuore. E il cuore sta a metà tra le ragioni basse e quellealtissime, e forse è l’unico che trova il modo di mediare tra i sentimenti contrastanti che animano le persone tra loro ma anche ciascuno di noi. E come una corda lunga tiene insieme le radici, che stanno inbasso, e le braccia tese che cercano di andare più in là, e nel contempo pompa energia vitale perché tuttocontinui ad esistere.

Il potere pacifista del pop

Qui, come da noi in Europa, come in tutto il mondo, c’è un popolo (e quelli dell’Eurovision sono duecento milioni!) che vuole un mondo di gente insieme, di per e non di contro. E che facendo la gimcana tra muri, porti chiusi e tensioni diplomatiche, cerca dei pertugi in cui buttare semi anziché bombe. Che combatte la distrazione di massa cercando di tener desta l’attenzione…Che nel dubbio o davanti alla paura, non gira d’istinto la testa altrove, ma fissa bene lo sguardo sull’altro, e cerca di vederlo per quello che davvero è. E allora va bene anche se lo fa con la leggerezza di canzoni pop, molte delle quali decisamente orrende.

Mi alzo e saluto le ragazze con un “ciao” fatto con la mano, e mentre pago il conto in cassa, penso che forse non è un caso che siamo in questa terra di così tante contraddizioni, che ci insegna come il mondo tutto sia complesso, fatto delle infinite sfumature di torti e ragioni, di cose fatte bene ed altre sbagliatissime, e che non capisci niente se non ti sforzi un po’. E se non capisci niente finisci per vivere in una realtà soltanto subendola. E non sarà un caso se in ebraico per dire attenzione si usi l’espressione “sim lev” , ovvero mettici il cuore.

*Diego Passoniè un conduttore radiofonico e televisivo. Il suo primo libro Ma è stupendo è edito da Vallardi. Ha raccontato l’Eurovision 2019 sull’account Instagram di Open.

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