Avevano chiesto di bandire l’utilizzo obbligatorio – su richiesta del datore di lavoro – delle scarpe col tacco, dando vita a una petizione online che su change.org aveva ricevuto più di 23 mila firme in Giappone. Ma il ministro del Lavoro giapponese, Takumi Nemoto, ha detto loro di no.
Nel farlo non ha usato giri di parole, limitandosi, in assenza di una legge o di una regola scritta che lo imponga, a difendere la pratica: «L’utilizzo di calzature con i tacchi alti sul luogo di lavoro può essere una prassi necessaria e appropriata».
Di fronte a una commissione parlamentare, Nemoto ha poi ribadito che si tratta di un’usanza «socialmente accettabile». Ma per i firmatari della petizione, che fa riferimento all’attrice e scrittrice Yumi Ishikawa, si tratta di una forma di discriminazione nei confronti delle donne perché agli uomini non viene richiesto di fare altrettanto.
Una vicenda che tende a confermare la poca attenzione nel Paese per l’uguaglianza di genere: nella graduatoria stilata World Economic Forum il Giappone è classificato al 110mo posto, su un totale di 149 Paesi. Si tratta però di una tendenza globale.
Il movimento lanciato da Ishikawa si rifà infatti alla vicenda di Nicola Thorp, un’impiegata 27enne che fu licenziata nel 2016 da una società londinese perché si era rifiutata di indossare delle scarpe con il tacco. In quel caso però la compagnia decise di cambiare le proprie regole, permettendo alle proprie impiegate di indossare scarpe senza tacco.
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