Oggi alle 16 la conferenza dei capigruppo del Senato deciderà la data della mozione di sfiducia della Lega a Conte. Cosa succederà?
Conte sì, Conte no. Voto di sfiducia sì, voto di sfiducia no. Tutto è ancora in ballo per quanto riguarda le sorti del Governo. Quando il Senato sarà chiamato a esprimersi sul premier, come richiesto dalla Lega nella stessa sede durante le ore successive all’annuncio della crisi, lo decideranno i capigruppo di palazzo Madama nella Conferenza di oggi lunedì 12 agosto.
Il giorno più probabile è il 20 agosto, anche se la Lega vorrebbe arrivare al momento della verità già martedì. Tra le varie incertezze, l’unica cosa sicura sembra essere che in quell’occasione il premier parlamentarizzerà la crisi, passando ufficialmente la palla al Colle.
Intanto, in vista della presenza del premier in Senato, gli scenari possibili iniziano a delinearsi. Molto dipenderà dal gioco che sceglierà di fare il Partito Democratico con i suoi 51 senatori, anche in prospettiva della mozione di sfiducia proposta dagli stessi dem a sfavore di Matteo Salvini per lo scandalo dei presunti fondi russi al suo partito. Questione che il Pd spera di poter discutere già oggi durante la riunione dei capigruppo.
La (debole) alleanza Lega-FI-FdI
La Lega da sola non ha la forza numerica di mandare a casa Conte e il suo esecutivo e conquistare le elezioni anticipate. Per sperare di incassare il risultato, ai 58 voti leghisti devono necessariamente aggiungersene altri.
L’alleanza con i 62 senatori di Forza Italia e i 18 di Fratelli d’Italia, non sarebbe sufficiente, perché porterebbe a un totale di 138 voti su 315.
L’ago della bilancia? A ridisegnare gli equilibri ci sono gli 8 voti dei senatori delle Autonomie e i 15 voti del gruppo Misto, di cui fanno parte 5 ex M5s (Paola Nugnes, Gregorio De Falco, Carlo Martelli, Saverio De Bonis e Maurizio Buccarella), i due senatori del Maie (Movimento Associativo Italiani all’Estero) Adriano Cario e Riccardo Merlo e i senatori di Leu e +Europa.
L’astensione delle opposizioni
In alternativa, se le opposizioni non dovessero partecipare al voto sulla sfiducia, come chiedono Pietro Grasso e Loredana De Petris, i numeri parlano chiaro: la Lega con i suoi 58 senatori non avrebbe alcuna possibilità da sola di mettere la parola fine sul governo e la mozione di sfiducia potrebbe essere respinta facilmente dai 107 voti dei 5 stelle.
In sintesi: la capigruppo oggi fissa il primo calendario dei prossimi appuntamenti. Ma il pallottoliere della sfiducia segna ancora risultati incerti.
Da quando lo scorso 5 agosto il premier nazionalista indiano, Narendra Modi, ha deciso di revocare l’autonomia del Kashmir, regione a maggioranza musulmana al confine con il Pakistan, le tensioni tra Delhi e Islamabad, in un’area che Bill Clinton aveva definito «il luogo più pericoloso del mondo», sono tornate a riaccendersi.
Il primo ministro del Pakistan, Imran Khan, ha subito detto che la decisione di Nuova Delhi può portare a un conflitto che avrebbe «conseguenze inimmaginabili». Parole che riaccendono i timori di uno scontro tra le due potenze nucleari che proprio nell’area del Kashmir avevano già ingaggiato guerre in passato.
La revoca dell’autonomia: che cosa è successo?
Nel 1947, dopo l’indipendenza dell’India, i domini coloniali inglesi nell’area vengono divisi in una nazione a maggioranza musulmana, il Pakistan, e una a maggioranza indù, l’India. Milioni di persone emigrarono da uno Stato all’altro e migliaia di persone morirono nei conflitti inter religiosi che scaturirono dalla separazione.
Rimase in sospeso la sorte un regno al confine tra le due nuove nazioni, sulle montagne dell’Himalaya, governato dal maragià Hari Singh. Il monarca esitò a prendere una decisione ed entrambi i Paesi invasero il suo territorio. Il Pakistan ne conquistò un terzo e lo annesse, l’attuale Gilgit-Baltistan.
L’India occupò i restanti due terzi, corrispondenti agli attuali Jammu (a maggioranza indù) e Kashmir. Il maragià accettò di cedere le due province all’India purché ne salvaguardasse l’autonomia, disciplinata dall’articolo 370 della costituzione indiana, il quale garantisce alle autorità locali una relativa indipendenza normativa, e dall’articolo 35a, che consente loro, tra le altre cose, di poter decidere chi possa acquistare terre e avere residenza permanente nel Kashmir.
Lo status del Kashmir: l’articolo 370
L’articolo 370 della Costituzione indiana conferiva uno ‘status speciale’ al Jammu e Kashmir e consentiva al governo centrale di New Delhi di legiferare solo su difesa, esteri e comunicazioni, il resto spettava al Parlamento locale. La legittimità della mossa del primo ministro Narendra Modi, sull’abolizione dell’articolo 370 è molto dibattuta.
L’articolo in questione può essere abrogato solo dall’Assemblea Costituente indiana, organismo che però si è sciolto nel 1957. Una sentenza della Corte Suprema indiana aveva in seguito affermato che, una volta sciolta la Costituente, l’articolo fosse parte integrante della Costituzione. Dal momento che l’autonomia del Kashmir fu decisa con un decreto presidenziale poi vagliato dalla Costituente, Modi ha ritenuto che, in assenza di quell’organo, il solo decreto presidenziale, poi ratificato dal Parlamento, fosse sufficiente.
Non è escluso che la Corte Suprema sia chiamata ad esprimersi di nuovo in materia. Più di un giurista ritiene che l’articolo 370 sia ora parte integrante della Carta e pertanto avrebbe dovuto essere emendato seguendo la procedura di revisione costituzionale.
Secondo un’altra tesi, dal momento che l’articolo 370 disciplina l’applicazione al Kashmir dell’articolo 1, quello sullo stato dell’Unione, una sua abrogazione avrebbe sancito di fatto l’indipendenza del Kashmir, dal momento che sarebbe venuto meno il presupposto dell’appartenenza del Kashmir allo Stato indiano. E questa interpretazione legale potrebbe essere il presupposto che consentirebbe al Pakistan di attaccare sostenendo di voler salvaguardare il diritto internazionale.
I rapporti tra Pakistan e India
I rapporti tra le due potenze nucleari sono sempre stati tesi. A febbraio, le tensioni tra India e Pakistan si sono riaccese a causa di un attentato commesso da un kamikaze jihadista contro un convoglio di forze paramilitari indiane nel Kashmir meridionale. Morirono 40 soldati.
Entrambe le nazioni possiedono un nutrito arsenale nucleare. Secondo i dati forniti dal Sipri, think tank svedese che si occupa di armamenti e disarmo, il Pakistan ha tra le 150 e 160 testate nucleari. L’India tra le 130 e le 140, ma può contare su missili a maggiore gittata, gli Agni III, che possono colpire fino a tremila chilometri di distanza, contro i duemila della gittata massima dei missili pakistani.
A differenza del Pakistan, l’India possiede poi dallo scorso anno sottomarini nucleari, gli Ins Arihant, e missili da crociera in grado di colpire da terra, da aria e da mare, i BrahMos, sviluppati con la collaborazione dei russi. Se Islamabad ha più testate, Nuova Delhi ha quindi un arsenale più tecnologicamente avanzato.
Le conseguenze
Il premier conservatore Narendra Modi, in un discorso alla nazione ha spiegato che la sua decisione è stata necessaria perché «il Pakistan ha usato lo status di autonomia come strumento per la diffusione del terrorismo». Islamabad, da parte sua, ha sospeso gli scambi commerciali e approvato il declassamento delle relazioni con l’espulsione dell’ambasciatore indiano e il ritorno in patria del suo rappresentante a New Delhi.
Tra le altre misure il Pakistan ha deciso di sospendere l’unica linea ferroviaria tra i due Paesi, la Samjhauta Express tra Lahore e New Delhi, nota come l’Espresso dell’Amicizia, attiva dal 1976 e già oggetto di reciproche ritorsioni nei momenti di massima tensione.
Negli ultimi giorni volenti scontri si sono verificati tra la polizia e la popolazione musulmana del Kashmir, scesa nelle strade per protestare contro la decisione del governo indiano. La polizia indiana ha usato gas lacrimogeni e proiettili di gomma per disperdere almeno 10 mila persone che protestavano a Srinagar, nel Kashmir. Nella regione è stato inoltre imposto il coprifuoco per motivi di sicurezza.
Al momento l’avvio di un dialogo tra le due potenze è ipotesi lontana, la decisione di Islamabad di ridimensionare le relazioni diplomatiche e sospendere le relazioni commerciali bilaterali non ha smosso il governo indiano, che ha ribadito come l’abrogazione dello statuto speciale sul Kashmir dalla Costituzione sia «un affare interno all’India».
New Delhi non allenta la morsa sulla regione contesa a maggioranza musulmana: secondo quanto riferito dai media locali, negli ultimi giorni i servizi hanno arrestato 560 persone nel Kashmir indiano a Srinagar, Baramulla e Gurez, per prevenire altre violenze.