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«Sono un rider e non voglio il contratto». La protesta di chi chiede meno regole (contro il decreto Di Maio)

26 Settembre 2019 - 06:13 Redazione
I ciclofattorini occasionali rivendicano delle condizioni di flessibilità che per i rider a tempo pieno significano precarietà. Si può pensare a un sistema di tutele completo fuori dai contratti di subordinazione?

Tra l’8 e il 10 ottobre arriverà in Aula al Senato il decreto legge sulle tutele del lavoro e le risoluzioni delle crisi aziendali, il cosiddetto Dl Rider. Il decreto era stato approvato «salvo intese» durante uno degli ultimi atti del governo gialloverde – al consiglio dei ministri del 4 agosto – ed è entrato in vigore il 5 settembre. Ma a causa della frammentarietà della categoria, quella che sembrava essere una questione in via di chiusura si è rivelata essere più aperta che mai.

Il compromesso di Di Maio

L’ex ministro del Lavoro Luigi Di Maio aveva fatto della battaglia per le tutele dei ciclofattorini uno dei biglietti da visita del Movimento durante il periodo pre-elettorale. Non appena salito al governo, poi, aveva convocato un tavolo con sindacati e rappresentanti delle aziende di food delivery per avviare un percorso di inquadramento della professione all’interno di una contrattazione precisa: le parole chiave erano subordinazione e paga minima oraria.

L’introduzione del salario minimo garantito su base oraria, unito alle tutele garantite da un contratto di subordinazione (pagamento degli straordinari, accesso al sussidio di disoccupazione e tutele piene), erano anche le richieste di gran parte dei collettivi autonomi dei ciclofattorini, che rinnegavano la definizione di “lavoretto” per il loro impiego. Per molti di loro, infatti, l’occupazione come rider è a tempo pieno, e il sistema a cottimo li espone a rischi e incertezze di tipo sia retributivo che di sicurezza.

Alla fine, data anche la resistenza dei colossi del settore, il decreto ha tentato di districarsi tra le due parti: ha sancito la possibilità per i rider di essere inquadrati nella contrattazione collettiva della logistica, ha formulato un mix tra paga oraria e retribuzione a cottimo, e ha reso l’assicurazione Inail obbligatoria. Un epilogo che non solo ha lasciato scontenti i collettivi dei ciclofattorini, ma ha contribuito a scoperchiare un vaso Pandora: quello dei rider che vedono nella flessibilità del lavoro a cottimo e «autonomo» (o meglio, occasionale) una condizione irrinunciabile.

La lettera di 500 rider

Il 24 settembre 2019, circa 500 rider hanno sottoscritto una lettera pubblicata sulla piattaforma Typeform e indirizzata al governo italiano. «Le norme contenute nel decreto per la “tutela del lavoro” in discussione al Senato – si legge – non solo non migliorano le nostre condizioni di lavoro: le peggiorano. E per questo vi chiediamo di modificarle».

Una delle criticità individuate da questo gruppo di lavoratori è proprio l’eliminazione del cottimo: l’introduzione di un minimo orario che sia prevalente al cottimo potrebbe portare a un abbassamento delle entrate giornaliere. «Il cottimo è una delle forme di retribuzione previste dal nostro Codice civile, e per un lavoro come il nostro è la forma più meritocratica che ci sia», scrivono. «Il fatto che tale minimo debba essere “prevalente” rispetto al corrispettivo legato alle consegne rischia di diminuire i nostri compensi, invece che aumentarli».

Ma le lamentele riguardano anche l’obbligatorietà dell’assicurazione Inail regolamentata dal riconoscimento del subordinato. Rivendicando la loro condizione di “autonomi” («noi siamo – e siamo contenti di essere – lavoratori autonomi»), scrivono: «Molti di noi hanno altre attività (lavorano o studiano), e la flessibilità che garantisce questo lavoro è per molti di noi un criterio di scelta fondamentale».

Attualmente, alcune tra le aziende di food delivery forniscono dei pacchetti assicurativi che non sono paragonabili in quanto a completezza alla copertura Inail.

La varietà dei soggetti

La questione è complessa. Come fa notare Emanuele Dagnino, assegnista presso l’Università di Modena e Reggio Emilia, una delle prime questioni affrontate dal testo è la mancata rappresentanza della categoria. Una mancanza che è espressione diretta del problema: «Le piattoforme si caratterizzano per un’altissima eterogeneità e variabilità dei lavoratori – spiega Dagnino a Open – che rende difficile l’individuazione di una struttura stabile e la conseguente costruzione di una comune voce collettiva».

«All’interno del calderone rider esistono diversi gruppi con diversi interessi», continua Dagnino. «Molto spesso queste istanze sono disallineate tra loro, e difficilmente i diversi gruppi riescono a essere rappresentati in maniera univoca. Ci sono, per esempio, dei rider che lavorano molte ore per la stessa compagnia, altri che lavorano solo occasionalmente per incrementare i guadagni».

Un’eterogeneità non trascurabile, che fa sorgere voci diverse anche in rispetto al disegno di legge targato 5stelle. Per chi punta al massimo incasso nel minor tempo possibile, il mix tra cottimo e minimo orario incide sul corrispettivo giornaliero: «Per chi ha alti livelli rispetto al numero di consegne orarie, il livellamento del corrispettivo rispetto alle consegne può non essere una cosa positiva».

Tutele e lavoro a cottimo: binomio possibile?

Ma la voracità delle consegne pagate a cottimo è uno dei nodi cruciali per la sicurezza sul lavoro. Le strade dissestate e l’abbigliamento poco adatto uniti alla spinta a correre più veloce per guadagnare di più, hanno dato adito alle proteste più importanti nell’ambito delle tutele. E la paga a cottimo, in quest’ambito, sembra mal bilanciarsi con la sicurezza sul lavoro.

«La difficoltà è proprio il bilanciamento», spiega ancora Dagnino. «Ed è difficile bilanciare a livello legislativo le necessità delle parti in gioco. C’è stato un tentativo di ammorbidire le condizioni senza togliere del tutto il cottimo, ma così può sorgere il problema dell’abbassamento dei corrispettivi».

«L’esistenza di una quota di cottimo di per sé non è per forza problematica, specie se questa dovesse essere ricondotta all’interno di una certa regolamentazione della contrattazione che sappia determinarne la misura», insiste Dagnino. Ma un cottimo lasciato senza nessun tipo di vincolo e gestito direttamente dalle piattaforme (che quasi mai sono interessate ad andare incontro alla contrattazione collettiva) lascia in piedi tutte le problematiche.

Da questo punto di vista, nel decreto legge c’è un’apertura alla contrattazione collettiva, ma permane «una difficoltà a lavorare sulle diverse soggettività in campo».

Il vero problema: la gig economy

Secondo Dagnini, a monte c’è una certa miopia. «Il problema è che si vuole regolare solo uno specifico settore», spiega. «C’è un problema molto più ampio che non riguarda solo i rider e che è quello della gig- economy (economia dei lavoretti, ndr)».

Affrontare la questione rider come se fosse slegata dagli attuali meccanismi economici non porta alla risoluzione definitiva delle difficoltà. Se non si ripensa a come inserire il sistema di tutele tra le nuove forme di lavoratori sarà difficile uscire dall’impasse. «Serve ampliare le tutele», continua Dagnino. «In un’ottica più ampia dobbiamo cercare soluzioni di carattere generale».

A tal proposito, il Senato della California ha appena approvato una proposta di legge che potrebbe costringere i giganti della delivery economy a riclassificare i propri lavoratori come dipendenti e assicurargli protezioni come sussidi di disoccupazione e salario minimo orario. Ma la legge sarà ad ampio respiro: come riporta il New York Times, interesserà almeno un milione di lavoratori dello Stato inquadrati come autonomi, quali conducenti, corrieri, inservienti, fino ad arrivare ai lavoratori edili.

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