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La Tunisia è un porto sicuro? Ecco cosa succede a chi sbarca qui secondo l’Unhcr – L’intervista

06 Ottobre 2019 - 07:00 Angela Gennaro
Sì, il Paese ha firmato la Convenzione di Ginevra, e no, non ha poi mai implementato nessuna legislazione nazionale. Oggi si vota per il rinnovo del parlamento

«Sì, la Tunisia ha dei Place of Safety, dei porti sicuri dove è possibile pensare di sbarcare le persone soccorse nel Mediterraneo centrale». A parlare con Open è Vincent Cochetel, inviato speciale dell’Unhcr – l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati – per il Mediterraneo Centrale. «Certo, il sistema è migliorabile. Ma sta già accadendo», spiega.

Dopo la morte, a 92 anni, del presidente Beji Caid Essebsi lo scorso luglio, il ballottaggio per le elezioni presidenziali si terrà il 13 ottobre: a sfidarsi, il giurista conservatore Kais Saied, indipendente, che al primo turno ha totalizzato il 18,4% dei voti, e il magnate populista Nabil Karoui, in carcere dal 23 agosto scorso con le accuse di riciclaggio e per evasione fiscale e riciclaggio di denaro, che ha ottenuto il 15,5% delle preferenze. Oggi, 6 ottobre, è invece la volta delle elezioni per il rinnovo del parlamento.

Una donna cammina davanti ai manifesti delle elezioni legislative a Tunisi, Tunisia, 26 settembre 2019. EPA/Mohamed Messara

Il 23 settembre scorso a New York, a margine dell’assemblea delle Nazioni Unite e dopo aver incontrato i ministri degli Esteri tunisino e algerino, il titolare della Farnesina Luigi Di Maio ha annunciato di lavorare su una lista di porti sicuri per l’eventuale sbarco di navi di soccorso impegnate nel Mediterraneo centrale. Lo stesso presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, sarebbe al lavoro su questo fronte dopo l’accordo di Malta: “porti sicuri” in Nord Africa dove far sbarcare i migranti provenienti dalla Libia, o almeno quelli che non hanno i requisiti per chiedere asilo.

Cosa è e cosa definisce un POS, place of safety? Per il diritto internazionale non è un POS, quindi un luogo sicuro, quel porto di sbarco in cui alle persone non vengano garantiti i diritti fondamentali. Non lo è la Libia, per esempio: anche i più recalcitranti – come Matteo Salvini quando ancora era ministro dell’Interno – hanno dovuto ammetterlo.

Per molte ong che si occupano di soccorso in mare (ma non solo per loro, anche per molti studiosi) neanche la Tunisia risponde a pieno a questi requisiti e quindi non può essere considerata un porto sicuro. Per quanto la situazione nel paese non abbia nulla a che vedere con i centri di detenzione e la guerra che devasta la Libia, la Tunisia non assicurerebbe però per esempio il pieno rispetto dei diritti di un migrante in arrivo: ha firmato la Convenzione di Ginevra del 1951, ma non ha poi implementato nessuna legislazione nazionale che regolamenti le richieste d’asilo.

Vincent Cochetel, qual è oggi la situazione in Tunisia?

«In Tunisia ci sono 2.847 persone tra rifugiati e richiedenti asilo. Sì, il Paese ha firmato la Convenzione di Ginevra, e no, in effetti non ha poi mai implementato nessuna legislazione nazionale. Questo è certamente un problema. Ma le persone possono ottenere protezione in Tunisia».

Come?

«Non sono le autorità tunisine a decidere se una persona ha diritto allo status di rifugiato o meno. Lo fa qui l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, e lo stesso accade in Marocco, Algeria, Egitto. In tutti i paesi del Nord Africa la situazione è questa: siamo noi a valutare se quella persona ha o meno diritto a ottenere lo status di rifugiato. Le autorità vengono informate e rispettano la nostra decisione: quelle persone hanno quindi il diritto di restare in Tunisia. Ai rifugiati viene assicurata un’educazione, training, corsi di lingua e con alcune ong locali lavoriamo per trovare loro un’occupazione legale. Se vengono ammessi al programma, possono lavorare: non sono i lavori migliori, ma possono trovare impiego nel turismo e in altri settori, soprattutto nelle grandi città. Non è la vita perfetta, ma richiedere la protezione è possibile. Molti giovani eritrei, sudanesi o somali, che vengono dalla Libia e arrivano in Tunisia, non vogliono training, però: vogliono solo andare in Europa. Non vogliono restare qui perché dicono che le condizioni non sono buone. Certo, non sono perfette, ma non sono peggiori che in Etiopia o in Sudan. Le persone, se vogliono restare qui, possono farlo».

Le preoccupazioni delle ong che si occupano di soccorso in mare in merito allo status di Pos della Tunisia sono condivisibili?

«Una nave non è il posto migliore dove decidere se una persona è o meno un rifugiato. Se le persone a bordo dicono di avere bisogno di protezione, non dovrebbero certamente essere riportate alle autorità dei loro paesi, in Algeria, Tunisia, Libia, perché le conseguenze possono essere molto gravi. Quelle persone stanno scappando, per paura o persecuzioni. Ma la grande maggioranza di chi parte dalla Tunisia non è un rifugiato: sono migranti economici e non hanno bisogno di ricorrere alla protezione internazionale. La maggioranza dei tunisini che arrivano in Italia vengono riportati in Tunisia molto rapidamente. A volte quindi le preoccupazioni di queste ong sono più teoriche che pratiche».

Vincent Cochetel, Special Envoy of the UNHCR for the Central Mediterranean situation. UNHCR/Susan Hopper

L’accordo di Malta e l’implementazione di altri porti dell’area, quindi anche quelli tunisini, è possibile?

«Dall’inizio dell’anno, già una decina di navi hanno sbarcato persone in Tunisia. Sta già succedendo. Quando la guardia costiera tunisina salva qualcuno in mare lo porta in Tunisia, per esempio a Sfax o Zarzis. Poi, insieme all’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni incontriamo queste persone, le portiamo al centro di accoglienza, cerchiamo di dare loro risposte ed esiti in un paio di giorni. Certo, avremmo bisogno di un sistema più organizzato che coinvolga più paesi del Nord Africa, non solo la Tunisia. Che anche i paesi del Nord Africa partecipino alle operazioni di sbarco delle persone eventualmente soccorse in mare. L’area del Mediterraneo è una sfida. E non è una sfida solo per l’Europa».

Fonte/UNHCR

Ci sono state molte navi, anche commerciali, che hanno soccorso migranti nel Mediterraneo centrale e poi hanno atteso per giorni che le autorità tunisine dessero l’ok allo sbarco.

«È vero. Ma quelle navi commerciali hanno atteso in acque tunisine l’assegnazione di un porto sicuro spesso la metà del tempo rispetto a quanto, ultimamente, una nave ong abbia aspettato l’assegnazione di un porto in Europa».

Parla dei porti chiusi italiani…

«Dico in Europa perché parliamo anche di Malta. Sì, ci sono stati dei ritardi durante l’estate. Nel caso del rimorchiatore Maridive 601, alla fine, dopo 18 giorni le persone sono state sbarcate».

Ma quindi, in definitiva, l’Unhcr considera oggi la Tunisia un porto sicuro?

«La Tunisia ha dei place of safety. Le persone possono essere sbarcate: non vengono spedite in prigione, non vengono rispedite indietro da quelle autorità del loro paese da cui stanno eventualmente scappando. Possiamo lavorare con l’Oim e fornire loro assistenza. Non è grandioso, non è un’accoglienza “di lusso”, ma è ok».

In copertina Vincent Cochetel a Budapest 8 settembre 2015. UNHCR/Mark Henley

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