Interviste emergenti: The André, la voce di Faber sui testi della trap

«Non faccio cover, traduco la musica trap nella canzone d’autore novecentesca – spiega strimpellando la chitarra dietro due grandi lenti scure -. Sono delle traduzioni culturali. E in queste traduzioni c’è il tradimento sia verso la trap che verso quel personaggio che non nominerò. Sono un bastardo»

Un giovane incappucciato con una voce divina che ha fatto impazzire il web. Aspetta, ma è il timbro di Fabrizio De André. «Fuck energie negative», oppure «Problemi al cervello? Spegni e riaccendi». Ecco, bisogna immaginare questi versi, queste parole, cantate con lo stile delle ballate e con la voce profonda del più grande cantautore italiano del Novecento.


The André è un ragazzo tra i 25 e i 30 anni che è nato nel Nord Italia e adesso vive a Milano. Di giorno ha un lavoro comune, la sera si dedica al suo percorso artistico che, da gioco, si è trasformato in una traduzione filologica dei testi trap e indie secondo la tradizione di Faber. Non possiamo raccontare di più della sua identità, «perché l’assenza di un volto aiuta il pubblico a concentrarsi sull’effetto distopico della voce simile a quella di De André che canta le canzoni di oggi».


Straniamento, quell’artificio comunicativo con cui si scardinano gli automatismi della percezione di un messaggio, e una sorta di willing suspension of disbelief, la sospensione dell’incredulità coniata da Coleridge, che chiede al fruitore dell’opera artistica di abbandonare il senso critico e di fidarsi, per un momento, di una realtà che, invero, è finzione. Ma sacrificare la logica e il realismo permette di godere appieno della musica di The André.

Qual è il lavoro creativo che porta alla produzione di un brano?

«Le mie canzoni in realtà sono delle traduzioni: provengono dall’universo trap, trash, indie, popolare, e io riscrivo completamente da capo. Oltre a cambiare la melodia sottostante, l’arrangiamento, prendo le idee principali del testo e le faccio confluire in un nuovo testo che ha la forma della canzone d’autore del Novecento, le strofe, le rime. Quest’operazione di traduzione trasforma il brano che richiama il suo antenato, ma in realtà è un inedito travestito da cover».

Come scegli le canzoni da “tradurre”?

«Di solito mi capita di ascoltare delle canzoni o me le fanno ascoltare perché sono sorprendenti: oltre all’apparenza, un po’ vacua, nascondono dei messaggi in atto o in potenza che io cerco di portare alla luce. In una canzone che apparentemente parla di “droga, bitch, Rolls Royce e Rolex”, mi pare di intravedere un tema a me caro, serio, che cerco di estrapolare con l’operazione di riscrittura».

Come hai fatto per avvicinarti così tanto, nel modo di cantare, a quello di De André?

«La somiglianza della mia voce con quella di De André, in realtà, è parziale: ho un registro abbastanza simile al suo, ma non ho studiato coscientemente. Ho ascoltato la sua musica fin da piccolo e i miei primi tentativi canori avvenivano strimpellando le sue canzoni. Alcuni vezzi stilistici del suo cantato, alcune maniere, mi sono entrate dentro e le so adoperare».

C’è un lavoro particolare di editing sui suoni?

«La fase di registrazione, per le prime cose che ho fatto, era uno studio costosissimo: il mio Samsung – ride -. Poi, una volta che i numeri sono cresciuti, mi sono fatto aiutare da un gruppo di amici che avevano uno studio di registrazione casalingo».

Quando hai capito che la tua musica poteva diventare molto di più di un semplice fenomeno da social network?

«Dopo una settimana che avevo avuto il mio piccolo nucleo di successo su YouTube, un’etichetta discografica mi ha scritto e ci siamo incontrati per fare qualche cover insieme. Ci siamo piaciuti e di lì è nata l’idea del disco Themagogia – Tradurre, tradire, trappare, uscito il 18 gennaio 2019. E siamo arrivati a un tour di 50 date che ci ha portato in giro la primavera e l’estate di quest’anno».

A proposito, perché questo titolo?

«Themagogia, è un riferimento alla demagogia che è un modo di accontentare il popolo facendo in realtà i propri interessi. Io ho sempre detto che accontento il popolo degli ascoltatori portando la trap, ma in realtà faccio i miei interessi suonando la musica che piace a me. Questo viene fuori dal sottotitolo tradurre, tradire, trappare, perché sono delle traduzioni culturali. E in queste traduzioni c’è il tradimento verso la trap originale e verso quel personaggio che non nominerò. Sono un bastardo – ride -. Tradisco il pubblico, tradisco il passato, tradisco il presente».

Perché lo fai allora?

«Per i soldi. Lo vedi il Rolex?», scherza, mostrando il polso libero.

L’anonimato, per te, è un’operazione di marketing o un’operazione artistica?

«L’anonimato non vuole essere un’operazione di marketing. Fa parte del desiderio di portare in tour ciò che accadeva su YouTube: non mi si vede mai in volto nei video, si sente solo la mia voce. Cercare un anonimato completo, travestirmi in modi complicatissimi avrebbe attirato l’attenzione sull’anonimato. Invece questo mezzo mascheramento che ho scelto – cappuccio e occhiali polarizzati – aiuta a non farsi disturbare dal volto e a concentrarsi di più sulla voce. Un’idea naïf nella quale credo ancora».

Come ci si sente a essere conosciuti solo per la voce, una voce senza volto?

«Di natura, non sono espansivo, esuberante, quindi il cappuccio e gli occhiali scuri mi aiutano a salire sul palco e fare il buffone per un’ora senza vergognarmi troppo».

Ti emanciperai, un giorno, da questo tipo di produzione musicale?

«Il passo ulteriore che sto facendo è fare della musica dal nulla, senza ispirarmi a nessuna canzone venuta prima di me. Anche se io sto facendo in maniera più scoperta ciò che molti artisti fanno di nascosto: in realtà non si può creare niente da niente, ci si rifà sempre a qualcosa filtrandola attraverso la propria sensibilità».

Ti ha mai causato problemi, anche legali, il tradurre le canzoni altrui?

«Non ho avuto mai problemi con i trapper, perché semplicemente mi hanno ignorato. Ho incontrato molta più gente del panorama indie: loro sembrano aver apprezzato molto la mia cifra artistica. Per quanto riguarda la famiglia e la fondazione De André, ho parlato con Dori Ghezzi che mi ha detto di apprezzare molto quello sto facendo: ho suonato a due eventi dove c’era anche lei tra gli ospiti».

All’apparenza può sembrare una semplice caricatura, ma quanto lavoro c’è dietro i tuoi pezzi?

«C’è di sicuro un lavoro di riscrittura, del testo e della musica. Io lo vivo con molta semplicità, nel senso che ho studiato e suonato un certo genere di musica. Nel momento in cui mi devo approcciare una canzone rap o trap, ho già pronta l’attitudine giusta per riarrangiarla in una chiave vicina alla musica che piace a me. Magari è il frutto di anni e anni di tortura interiore, ma la traduzione musicale mi viene abbastanza facilmente».

Hai fatto studi particolari per arrivare a questo livello di affinità vocale con De André?

«Ho fatto studi accademici in campo musicale, non di canto o di chitarra. Ma la formazione principale è avvenuta attraverso l’ascolto di tantissima musica e nel tentativo, in cameretta, di riprodurre quello che sentivo».

Ti ricordi com’è iniziato tutto? La tua vita, da allora, è cambiata?

«All’inizio questo progetto era semplicemente un goliardata partita su Whatsapp con un amico. Poi le cose sono diventate sempre più impegnative e adesso siamo arrivati al punto in cui non vivo di questo, ma The André è una sorta di vita parallela che vivo quando finisce, la sera, la routine giornaliera. Ma, nella vita reale, ho anche un vero lavoro».

Ti stai facendo conoscere anche dal pubblico televisivo. Com’è apparire sul piccolo schermo?

«Con Extra Facotr, che è il dopo festival di X Factor, stiamo cercando di portare la dimensione di straniamento, decontestualizzazione, all’interno di un programma televisivo. Il che è difficile, anzi, utopistico direi. Per adesso l’abbiamo fatto con un pot-pourri di successi dei quattro giudici. Anzi tre, visto che Mara Maionchi non canta».

Video: Vincenzo Monaco
Foto: Ilario Botti
Location: Officine Balena

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