Interviste emergenti: Tananai, la piccola peste dell’indie – Milano

Alberto Cotta, classe 1995, è il volto della giovanissima scena indie milanese. «Bear Grylls, Ichnusa e Volersi male», sono le prime tre canzoni del suo album d’esordio, che uscirà entro la fine dell’anno

Sui divanetti della Sugar, l’etichetta discografica «indipendente» – ci tiene a precisare Alberto Cotta Ramusino – la “piccola peste” della scena indie milanese racconta la sua vita. Tra le sbronze con gli amici aspettando il primo metrò all’alba, per tornare nella sua Cologno Monzese, al trasloco a Lambrate, «quartiere di creativi», dove condivide l’appartamento con il suo batterista e amico di una vita: Tananai, questo il nome d’arte, racconta la sua vita e la sua musica. «La noia è il mezzo per scrivere le canzoni. Il fine sono le persone alle quali penso mentre compongo».


Iniziamo dal nome: perché Tananai?


«Tananai è il nomignolo che mi ha dato mio nonno quando ero piccolino. La cosa strana è che non so in che dialetto voglia dire “piccola peste”, ma è quella l’accezione che dava mio nonno. Ho scelto questo nome perché penso spesso a lui. E quando ho iniziato questo progetto musicale mi son detto: “Ho rotto i coglioni a tutta la mia famiglia con la musica. Il nonno era l’unico che non conosceva questo mio lato, perché se ne è andato quando ero troppo piccolo per avere dei sogni”. Quindi Tananai e per rendere partecipe il nonno della mia storia musicale».

Quando hai deciso di fare della musica il tuo lavoro, la tua vita?

«Ho lasciato la facoltà di Architettura perché ero a un bivio: o dedicarmi alla musica per bene o finire il corso di laurea. Fare tutte e due le cose avrebbe significato essere mediocre in entrambe le materie. Non avevo il tempo, davvero. Quando ho dovuto decidere a cosa rinunciare, ho pensato che una vita senza fare l’architetto mi sarebbe comunque andata bene. Una vita senza aver provato con tutto me stesso a realizzarmi nella musica no: mi sarei trascinato troppi rimpianti nel futuro. E alla fine, la verità è che come architetto facevo abbastanza schifo – ride -. Anche se quando vado in giro non smetto mai di alzare la testa, guardare i palazzi e le linee che disegnano in aria».

I tuoi genitori non l’avranno presa bene.

«Sono stato fortunato perché i miei genitori mi hanno sempre supportato nelle scelte che ho preso. Ovviamente, dire che erano contenti sarebbe una bugia: tutti sanno che il percorso musicale è duro, precario. Però si fidano molto di me e io di loro, quindi sapevano che non si trattava di una ragazzata. Anche perché io mi sono annoiato sempre di tutto nella vita. Se pensi a uno sport, ecco io l’ho fatto. Tranne il curling. Però poi mi annoiavo, dello sport, delle amicizie. Persino dello studio di uno strumento: ho fatto tanto pianoforte e chitarra, ma mi sono annoiato e ho mollato. L’unica cosa che non mi ha mai stufato è creare musica. Anziché uscire, quando tornavo a casa da scuola, o dall’università, passavo il tempo a comporre. Quindi ho pensato: “Questa cosa non mi annoia da troppo tempo. Strano, allora devo continuare a farla con tutto me stesso”».

Quando hai mosso i primi passi nel mondo musicale?

«La mia prima esperienza lavorativa nel mondo della musica l’ho avuta a 15 anni. Facevo il dj nelle discoteche di Milano. Dj e pr ovviamente: per questa tipica mafia milanese dei locali, devi portare un minimo di persone alla serata per poter suonare mezz’ora in uno slot di merda. Poi facevamo after io e i miei amici e aspettavamo la prima metropolitana per tornare a Cologno Monzese, mia città natale. Pian piano i miei brani sono diventati più ascoltati e mi hanno chiamato a suonare su palchi più importanti. Così ho potuto smettere di vendere prevendite».

All’inizio componevi musica elettronica, poi hai cambiato completamente genere, mettendoci la tua voce.

«Ho sempre scritto. Mai con l’idea di trasformare i testi in canzoni. Quando ho terminato il progetto Not For Us, ho abbandonato l’elettronica. “Ehi Alberto – mi sono detto – “qui hai dato tutto, devi cambiare”. Quindi ho iniziato a pensare che le parole, aggiunte alla musica che facevo, avrebbero potuto dare quella svolta. Poi, sempre per noia, ho preso dei testi che avevo scritto nei momenti in cui non avevo nulla da fare e ho visto che combaciavano bene con la musica verso la quale stavo virando. Ma ancora più importante: io sono uno con la testa fra le nuvole. Mi sono reso conto che quando riascoltavo un pezzo scritto da me e fatto solo di musica, senza parole, non riuscivo a ricordarmi esattamente cosa provavo mentre componevo quel pezzo. E questa cosa mi estraniava: non c’era la carne mia dentro quel brano. Così ho realizzato che la carne sono le parole. Poi, certo, ci vogliono le ossa, e le ossa sono la musica».

Quando è avvenuta questa svolta?

«Tananai nasce due anni fa, quando avevo 22 anni. Adesso stanno iniziando a uscire le prime canzoni. L’album uscirà, non voglio impormi una data perché non voglio limitare il numero di pezzi, ne sto scrivendo altri che potrebbero essere inclusi. Posso dirvi che entro la fine dell’anno usciamo con la Sugar».

Parliamo dei tuoi primi tre singoli da “piccola peste” dell’indie. Volersi male

«Essenzialmente questa canzone mi è nata perché avevo sentito un profumo e quel profumo mi tirò fuori determinati ricordi. “Cazzo quanto è forte questa roba degli odori”, ho pensato. Sento un odore dopo dieci anni e mi ricordo, pensa, dei Pokemon. Il tutto perché avevo una macchinetta che faceva Pikachu, Charmender e Bulbasaur di plastilina. Come cazzo è possibile che mi ricordo una cosa del genere se non riesco a ricordare cosa ho mangiato ieri sera? Poi, ancora, ho sentito questo odore che mi ricordava un momento di me in auto che piangevo. Volersi male è un flusso di coscienza legato a quell’odore».

Ma è necessario, secondo te, volersi male?

«C’è un po’ un gioco di parole nel volersi male. Alle volte, devi volerti male per poter continuare delle situazioni. Amorose, stili di vita. Capita che devi volerti male per portar avanti una relazione che è finita. Ma volersi male significa anche avere la bava alla bocca, l’abnegazione totale per raggiungere un obiettivo. Il brano si chiude con volersi amare: finirà questa cazzo di moda per cui dobbiamo tutti essere felici, sentirsi amati? No, non finirà mai, abbiamo bisogno, in quanto umani, di sentirci amati».

E la scelta di passare una giornata in un carrello della spesa per girare il video?

«Ci sono due versioni per spiegare il video con il carrello. Premessa, i video li giro con Olmo e Marco, due amici di vecchia data. Tutti e tre siamo fan della genuinità, nel senso: non penseremo mai a un video per più di un giorno. O è un’idea che ti sale subito e puoi fare in breve tempo, con poco budget, oppure si ricomincia tutto da capo. Essenzialmente il carrello rappresenta la moda, la spinta verso dover fare qualcosa. Il volersi male per restare nella comfort zone, che per me nel video è il carrello. Essenzialmente, una gabbia con le ruote: non ti rendi conto di quanto sia scomoda, ci vivi bene finché non ti scontri con un altro carrello. Nell’ultima scena mi scontro con un’altra persona nel carrello, che poi è il mio batterista e coinquilino. Ci riconosciamo reciprocamente nella stessa situazione di gabbia/comfort zone, e sbattendo ci rendiamo conto che dobbiamo provare a uscirne».

Dai, adesso parlaci di Ichnusa. Non è una “marchetta” vero?

«Ichnusa? Sì, mi piace come birra, però diciamocelo – Alberto non trattiene la risata -, faceva rima, faceva rima cazzo. Cioè se avessi dovuto chiudere un verso con un’altra parola avrei usato Moretti, Peroni, ecco Tuborg magari no perché non è che ci siano tante parole che finiscano in “org”. Però faceva rima, è questa la verità. Ma siccome sono sincero, tra le birre commerciali, l’Ichnusa è davvero buona. Spacca, quella non filtrata ovviamente. Sono più un tipo da vino. Anche se delle birre riesco a identificare le qualità, se fanno schifo o meno, il vino lo preferisco. Infatti il prossimo brano sarà – e inizia a cantare -, “Montepulcianooo”».

Un video particolare, una compulsione di dettagli, giusto?

«Hai ragione. Ci sono molte immagini che si rincorrono sia nella canzone che nel video. Un bombardamento di scene molto semplici, molti dettagli che vanno a creare la routine di un amore. Ma non solo, ha molti aspetti autobiografici. “Ho fama di fame”, dico nel brano: tutti i miei amici sanno che sono un gran mangione e divento una persona orribile se ho la pancia vuota. Ma canto anche “ho fame di fama”. Quando fai musica da tanto tempo e sei consapevole delle tue capacità, il cambiamento è necessario per restare attivo e non perdere la voglia di fare. L’idea è quella di accumulare esperienze, anche per raggiungere più persone possibile. Ma non me ne frega niente di diventare ricco, sia chiaro».

Ultimo brano da scandagliare, Bear Grylls.

«Tanto per cambiare, la canzone parla di me che mi annoio. Mi sento come Bear Grylls che lotta per sopravvivere. Lui nei boschi, io alla noia. Sostanzialmente se lo stato di noia perdura, diventi impassibile alle bellezze della vita. Il format del video è semplice: volevamo far emergere quello stato di imperturbabilità nonostante la presenza di cose, persone e azioni straordinarie. Cioè fuori dall’ordinario. Una curiosità è che Bear Grylls è il primissimo pezzo che ho scritto in lingua italiana nella mia vita. Mi sono fatto trascinare dalla wave dell’indie che stava esplodendo in Italia. Ma il testo è partito come una presa per il culo, poi però ho visto che il motivetto era entrato nella testa dei miei amici. Abbiamo pensato: “Cazzo funziona – ride -, monetizziamo”».

A parte la noia, musicalmente parlando intendo, c’è qualcuno o qualcosa in questo settore che potrebbe darti una scossa di felicità?

«Mi piacerebbe un giorno duettare con Franco126, mi fa impazzire. Con il suo ultimo album ha tirato fuori una riflessione nei testi, un gusto per le produzioni, un sound ricercato. “Ciao Franco, chiamami” – lancia un appello Tananai -. Ti giuro che il mio sogno era andare a suonare allo Sziget (Festival musicale di Budapest). E mi hanno chiamato: questa estate canto su uno dei loro palchi il 12 agosto. Ma anche suonare con i Verdena, sono mostruosi: rimango in estasi quando li vedo. Scambiano gli strumenti tra loro, sono di un altro pianeta. Ecco con loro mi basterebbe suonare il triangolino dal vivo con loro. Ti danno delle vibes, mi lasciano senza parole».

A chi dedichi le tue canzoni?

«C’è sempre una persona a cui è dedicata una roba. Ho scritto un pezzo su un mio migliore amico. Ho scritto tantissime canzoni per la mia ragazza, che adesso è diventata ex, ci siamo lasciati. Oppure per i miei genitori. Ecco la noia è il mezzo per scrivere le canzoni. Il fine sono le persone alle quali penso mentre compongo».

Ultima domanda, nel tuo futuro c’è Milano?

«Adesso vivo a Lambrate, un quartiere super vivace dove i creativi plasmano l’ambiente urbano. In generale, ho viaggiato abbastanza per poter dire che la mia vita la voglio passare in Italia. Più che altro per il cibo, per me fondamentale, come la gente: gli italiani sono gli italiani. Poi sono legato alla terra, forse sta roba delle radici sarà vera. Ciò non vuol dire che non voglia provare dei periodi all’estero. Ecco se dovessi scegliere una città in Europa dove vivere direi Berlino. Per la vita notturna, per la scena artistica, l’apertura mentale. Ecco Milano in questo è un po’ indietro: ti inquadra, la moda e l’economia qui la fanno da padrone. Ma alla fine, vorrei avere abbastanza soldi per comprare una casa al mare in Italia e stabilirmi lì. E tornando al discorso del cibo, sarò banale, ma accanto a casa mia ci deve essere un posto che faccia una buona pizza. Se proprio devo dire un altro cibo indispensabile per la mia gioia, direi la cotoletta alla milanese. Potrei vivere tutti i giorni mangiando pizza».

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