Israele e Palestina, tra rischio apartheid e quella pace ancora lontana

Il 2 marzo le elezioni in Israele, le terze in meno di un anno. Sullo sfondo, la questione palestinese. E il piano di Trump e Netanyahu

Pioggia o vento, gelo o calore, il centro di Ramallah in Palestina è un viavai di colori, un trambusto di macchine e clacson. Gente che corre, compra, fa la spesa. Ramallah tra discese, ripide, e salite faticose. A piedi o con un taxi che si offre – si trovano dappertutto, e in pochissimi minuti. Negozi, una infinità. Abbigliamento, scarpe, cibo, la bottega di un fotografo che offre servizi da videomaker. Poche le facce internazionali, ma non raro l’avvistamento di capelli biondi al vento, perfettamente affini al contesto: Ramallah, la capitale de facto dello Stato palestinese che non c’è, sede del parlamento, dei ministeri, di parecchie rappresentanze straniere, è anche il punto di riferimento in Cisgiordania delle ong internazionali, che si dividono tra qui e Gerusalemme. Con buona pace delle autorità israeliane, che non vedono di buon occhio la loro presenza nei Territori Occupati.


Angela Gennaro/OPEN | Gerusalemme

Gerusalemme, appunto. È lei – al-Quds, la Santa – «la nostra sola capitale. Nessun’altra». Così risponde qualunque palestinese in Cisgiordania. Epperò, giocoforza, è qui a Ramallah che ci si organizza. Tel Aviv non è lontana da qui: una sessantina di chilometri in linea d’aria. Si vede, si vedono i grattacieli dalle alte colline intorno all’Arafat Museum al nord della città, lì dove il leader è sepolto e dove a poca distanza si incrocia la statua di Nelson Mandela, dono del Sudafrica a sostegno della causa palestinese. Un quartiere dove le case della Ramallah bene e più benestante – un tempo chiamata la Parigi della Palestina, mentre la Cisgiordania era la Svizzera del Medio Oriente – hanno un prepotente tocco kitsch. «Sì, quella è Tel Aviv», dice un passante, scrollando le spalle. «Ma noi non ci possiamo andare».


Angela Gennaro/OPEN | Un soldato israeliano al Muro del Pianto, Gerusalemme

Le elezioni in Israele

Manca meno di una settimana alle elezioni in Israele: il Paese va al voto, per la terza volta in meno di un anno, il prossimo 2 marzo, per eleggere i 120 membri del parlamento, la Knesset, che dovrebbero restare in carica per quattro anni. Le ultime due tornate elettorali, ad aprile e a settembre, non avevano espresso una chiara maggioranza parlamentare. Benjamin Netanyahu, leader del Likud, quattro volte premier, ha già portato a casa il record di leader più longevo del Paese. Oggi è accusato di truffa e corruzione in tre casi distinti e il processo contro di lui comincerà due settimane dopo il voto, il 17 marzo: dovrebbe durare mesi. Se non ci saranno sorprese, e se nuovamente dalle urne non uscirà una maggioranza schiacciante, Bibi si presenterà in tribunale come premier uscente: è la prima volta per un primo ministro in carica. Se invece il Likud dovesse vincere chiaramente le elezioni, sarà la Corte Suprema a decidere sull’ipotesi che l’incarico di premier vada a un leader sotto processo. Contro l’ipotesi di un Netanyahu di nuovo premier, in queste ore 555 riservisti, combattenti dell’aviazione militare israeliana (che si definiscono «di destra, di centro e di sinistra, religiosi e laici») hanno sottoscritto (e pubblicato con nome e cognome sul quotidiano israeliano Haaretz), un appello perché l’incarico di formare un nuovo esecutivo non venga affidato «a chi è incriminato per trasgressioni gravi di corruzione di potere». «In quanto combattenti di Tsahal ci immedesimiamo con valori come riferire il vero, dare un esempio personale e assumerci le responsabilità. Questi sono i valori sui cui si basa la forza del nostro esercito e del nostro popolo», scrivono.

Angela Gennaro/OPEN | Soldati israeliani a Gerusalemme Vecchia

Difficile, certo, che si formi una grande coalizione tra il partito Bianco e Blu di centro di Benny Gantz e la destra del Likud. Ma è anche vero, secondo molti, che queste elezioni tenderanno a non cambiare nulla nella questione israelo-palestinese. Perché a prescindere dal colore politico – e a parte tutta una serie di piccoli partiti arabi e di estrema sinistra che si sono uniti nella cosiddetta Lista Comune (e che insieme formano la terza forza politica israeliana dopo Blu e Bianco e il Likud, con circa il 10%) – le principali formazioni politiche israeliane hanno tutte un’analoga posizione sulla Palestina, racconta a Open Amit. «Ci sono fasce dell’opinione pubblica israeliana che chiamano quella di Israele “occupazione” e che parlano, come noi, di violazione dei diritti umani», dice l’israeliano. Lavora a B’Tselem, un’organizzazione israeliana non governativa che si definisce «Centro di informazione israeliano per i diritti umani nei territori occupati». «Ma siamo pochi, invisi oggi al governo e non sempre ce la passiamo benissimo», sorride. Bibi Netanyahu, secondo quanto riporta Afp, si è impegnato in queste ore a costruire 3.500 nuove case di coloni in un’area molto sensibile della Cisgiordania occupata. La comunità internazionale ha ripetutamente avvertito che la costruzione di insediamenti ebraici nel corridoio E1 avrebbe «ridotto la Cisgiordania in due e compromesso la contiguità di un futuro stato palestinese». L’annuncio di nuove case, che avrebbero costituito un nuovo quartiere di Maale Adumim, città di insediamento vicino alle future costruzioni, è stata elogiata dal Consiglio Yesha, un gruppo di lobby dei coloni. E infatti la mossa viene vista come un «regalo» ai nazionalisti in vista delle elezioni del 2 marzo.

Angela Gennaro/OPEN | Barriera di separazione israeliana vicino a Ramallah

Solo pochi giorni fa, l’Italia ha espresso «profonda preoccupazione» per l’annuncio del governo israeliano di procedere alla costruzione di 5mila unità abitative nel distretto di Givat Hamatos e nell’insediamento di Har Homa a Gerusalemme Est. «In linea con la consolidata posizione dell’Unione Europea, l’Italia ribadisce che gli insediamenti nei territori occupati sono illegali ai sensi del diritto internazionale e rappresentano un grave ostacolo alla prospettiva di una soluzione sostenibile e accettabile da entrambe le parti. Esortiamo pertanto le autorità israeliane a riconsiderare la decisione annunciata», si legge in un comunicato stampa della Farnesina. «L’Italia rimane convinta che soltanto una soluzione a due Stati, con Gerusalemme capitale di entrambi, potrà assicurare una pace giusta e duratura, sulla base dei parametri internazionalmente riconosciuti e le rilevanti risoluzioni delle Nazioni Unite». «Non mi aspetto molto dalle prossime elezioni in Israele», ragiona Nabeel Shaath seduto sul divano del suo ufficio dentro alla sede dell’ufficio presidenziale a Ramallah. 81 anni, già ministro degli Esteri, è stato a lungo negoziatore nei colloqui di pace tra israeliani e palestinesi e consigliere di Yasser Arafat. «Con l’avvento di Trump e Netanyahu c’è un’ondata di estrema destra che sta prendendo piede in Israele. La lotta è tra chi è più a destra, tra chi vuole confiscare più terra ai palestinesi».

Angela Gennaro/OPEN | Ramallah

«Accordo» o «schiaffo» del secolo?

«Sono pronto a iniziare i negoziati se trovo un partner in Israele, sotto gli auspici del Quartetto e sulla base dei riferimenti internazionali». Sono queste le condizioni dettate qualche giorno fa dal presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese Mahmud Abbas al Consiglio di Sicurezza Onu in risposta al “Piano del Secolo” di Donald Trump. Un piano definito dal presidente Usa «l’ultima opportunità per i palestinesi» e «un grande passo verso la pace» e chiamato invece dal presidente palestinese lo «schiaffo del secolo». Per negoziare Abu Mazen accetta invece il Quartetto – l’Unione europea, i Russi, le Nazioni Unite e gli americani. «Ma non accetteremo un processo di pace basato su Trump e il controllo americano». Israele, dal canto suo, chiede – metaforicamente – la testa del presidente palestinese. «Non ci saranno progressi verso la pace finché Abu Mazen rimarrà nella sua posizione. Solo quando si dimetterà, Israele e i palestinesi potranno fare passi avanti», dice l’ambasciatore israeliano all’Onu, Danny Danon.

Angela Gennaro/OPEN | Ingresso degli uffici presidenziali di Mahmoud Abbas a Ramallah

Una storia fatta di interlocutori “sbagliati”. «La leadership palestinese è molto debole», spiega a Open Gayil Talshir, analista politica della Hebrew University di Gerusalemme. «Naturalmente ha detto no a questo piano e anche ai 50 miliardi di dollari promessi. E non penso che su eventuali tensioni Abu Mazen abbia il controllo del territorio che aveva 10 o 20 anni fa. Per i palestinesi non c’è molto da fare, se non aspettare che Trump non venga rieletto e che sorgano nuove condizioni internazionali». E infatti. «Non vedo la possibilità concreta di alcun processo di pace per almeno i prossimi tre, quattro anni», dice Shaath. Trump «può anche essere rieletto: noi dobbiamo pianificare ora per essere pronti tra cinque anni. Dobbiamo recuperare l’unità di Gaza e della Cisgiordania. Dobbiamo tornare a una democrazia rappresentativa, e ricostruire la nostra economia».

Angela Gennaro/OPEN | Ramallah

Nei Territori Occupati Palestinesi la disoccupazione tra i 15 e i 29 anni – secondo quanto riportava Agi a novembre, arrivava nel 2017 al 43,3% (30,1% in Cisgiordania e 64,6% nella Striscia di Gaza). A Gaza vivono quasi due milioni di persone e la crisi umanitaria è ormai conclamata. «Solo così saremo in grado di essere qui quando il mondo cambierà e diventerà un mondo con più centri di potere. E dove la legge internazionale viene applicata», dice a Open il consigliere per gli Affari Esteri di Abbas. «Vogliamo la pace con Israele, ma vogliamo una pace basata sulla soluzione dei due Stati», spiega Shaath. «Rigettiamo questa cospirazione contro di noi che viola le leggi internazionali, viola gli accordi di Oslo del 1993, viola i nostri diritti, per prendere le nostra terra e mandare via la nostra gente». Il piano, che resta secondo molti osservatori un annuncio a fini meramente elettorali sia pro Trump che pro Netanyahu, è per Shaath «un processo di acquisizione. Di apartheid». «Ci si sarebbe aspettati una prospettiva che parlasse di autodeterminazione e sicurezza», aggiunge Gayil Talshir. «Ma sia Trump che Netanyahu parlano di religione, di Israele come Terra Santa promessa da Dio agli Ebrei: una lettura giudeo-cristiana delle promesse bibliche più che un piano di pace politico e realistico», dice l’accademica israeliana. «E comunque rappresenta la radicalizzazione del discorso: sia il presidente americano che il primo ministro israeliano stanno così parlando alle loro basi politiche religiose, non con la comunità internazionale o con altri leader di Stato. È uno degli aspetti più problematici».

Angela Gennaro/OPEN | Ramallah

«Le dirò di più: ci va bene anche la soluzione di un unico Stato: lo scrissi già nel 1967», dice ancora a Open Nabeel Shaat. «Ma deve essere uno stato democratico, non apartheid, non ebreo, cristiano o musulmano. Dove ci sia una separazione tra stato e chiesa e dove le persone possano pregare il Dio che vogliono in una sinagoga, una moschea o una chiesa. Uno Stato non settario e secolarizzato». La popolazione ebraica al 2017 in Israele era di 6 milioni e mezzo di persone. I palestinesi sono 5 milioni. La soluzione di un unico Stato sarebbe vista con estremo criticismo non solo dalla destra israeliana, ma anche dagli ambienti più moderati nel Paese, perché è considerata da più parti come una sorta di «cavallo di Troia» per creare uno Stato a maggioranza musulmana in cui la minoranza ebraica subirebbe poi le stesse persecuzioni che hanno annientato le comunità ebraiche in quasi tutto il Medio Oriente – e che ora prendono di mira quelle cristiane.

Angela Gennaro/OPEN | Gerusalemme

Terza Intifada?

Il piano, al momento – o meglio, l’annuncio di quella che viene definita nel documento una “visione” – non è detto che porti a una nuova stagione di negoziazioni. Ma un effetto certo lo ha avuto: ha ricompattato i palestinesi tutti, da Hamas a Al-Fatah, da Gaza a Ramallah. Tra i palazzi e in mezzo alla gente. Lo si capisce parlando con le persone per strada, a Ramallah, Hebron e Betlemme. E lo confermano anche i sondaggi. Il no palestinese ha visto comprensione in osservatori accademici e internazionali di varia provenienza e formazione. Anche israeliani. «Il problema è che i Palestinesi non hanno mai attivamente detto cosa LORO vogliono e dove vogliono andare a parare», dice Gayil Talshir. «Dicono no al piano di Trump, ma hanno detto no anche al piano di Obama e a quello di Clinton».

Angela Gennaro/OPEN | Ramallah

E per gli israeliani? «La prospettiva presentata ha ricevuto l’endorsement dei principali partiti, Kahol Lavan, il partito Bianco e Blu di Benny Gantz e quello di destra, il Likud: significa che ha la maggioranza in termini di sondaggi», spiega a Open la professoressa della Hebrew University. «Ma se la reazione dei palestinesi dovesse essere quella di un aumento degli attacchi terroristici, della tensione e un deterioramento della sicurezza nell’area e nei rapporti con la Giordania, no, l’appoggio della maggioranza degli israeliani verrebbe meno». Domenica scorsa Israele ha condotto due attacchi paralleli in Siria, a sud di Damasco, e nella Striscia di Gaza. I morti sarebbero sei. Da quando il piano è stato anninciato, il 28 gennaio, a oggi, le proteste ai check point sono andate avanti con intensità più o meno invariata. Un ragazzo palestinese è morto. Hamas continua a inviare palloncini esplosivi e missili da Gaza al sud di Israele. Le forze israeliane rispondono colpendo gli obiettivi di Hamas. Un’escalation?

Angela Gennaro/OPEN | Ramallah

C’è il pericolo di una Terza Intifada? Alla domanda, per strada a Ramallah, indicano i murales raffiguranti i “martiri” della Prima e della Seconda Intifada. «Una cosa è certa: la Palestina non è in vendita e i palestinesi lotteranno fino all’ultimo». È così, o resta ormai solo una stanca risposta? «Ci sarà una lotta non violenta contro le azioni di Israele e in supporto di Gerusalemme», assicura dal canto suo l’ex ministro Nabeel Shaath, che è stato anche commissario per le Relazioni Internazionali di Fateh. «E infatti abbiamo da subito interrotto il dialogo con Israele su sicurezza e altri fronti dopo l’annuncio del Piano di Trump». «Sì, il pericolo c’è, ma non vediamo tutti i segnali sul terreno. Non così preoccupanti, almeno», dice Gayil Talshir. «Potrebbe essere una risposta, a cominciare dall’aumento delle manifestazioni ai confini. Ma i palestinesi avrebbero tanto da perdere da una prossima intifada. Certo preoccupa la destabilizzazione dell’area, che rende quella di una prossima intifada un’opzione aperta. Non imminente, ma eventualmente più radicale e violenta di quanto ci aspettiamo».

In copertina OPEN/Angela Gennaro | Flower Thrower (Il lanciatore di fiori), Banksy, Betlemme

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