Il Coronavirus può avere un impatto sulla COP26?

Dopo il recente fallimento della COP25, sono in molti a sostenere che la stessa sorte toccherà al summit previsto per novembre 2020, complice anche l’epidemia. Ma siamo certi che non si tratti dell’ennesima scusa per girarsi dall’altra parte e far finta di niente?

Dopo il recente fallimento della venticinquesima Conferenza delle Parti che hanno sottoscritto la Convenzione delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici (COP25), tenutasi per due settimane nella capitale spagnola senza però raggiungere un accordo sul double counting e sul loss and damage, sono in molti a sostenere che lo stesso destino toccherà alla COP26, in programma per novembre 2020 a Glasgow. Se è vero che gli incontri sul clima di quest’anno sono i più importanti dall’accordo di Parigi del 2015 proprio perché, per l’inquietante distanza tra la situazione attuale e gli obiettivi fissati in quell’occasione, rappresentano l’ultima occasione per invertire la rotta ed evitare il tracollo climatico, è altrettanto vero che i presupposti per il successo della COP26 non sono tra i migliori. 


Claire O’Neill, “licenziata” dal suo ruolo di presidente della COP26 a fine gennaio

Dopo un lento avviamento dei lavori – anche per via dell’improvviso licenziamento a fine gennaio del presidente di COP26, l’ex ministro dell’energia inglese Claire O’Neill (sostituita solo due settimane fa dal Segretario di stato per le imprese, Alok Sharma) – l’organizzazione del summit è ora ostacolata dall’epidemia di Coronavirus, che sta fatalmente colpendo alcuni dei Paesi più strategici per il summit di Glasgow.


L’impatto dell’epidemia sull’organizzazione del summit

Un’immagine della scorsa Conferenza delle Parti che hanno sottoscritto la Convenzione delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici (COP25), a Madrid

Gli attivisti lanciano un allarme: le restrizioni sui viaggi e le pressanti richieste in termini di tempo e risorse imposte dal virus ai governi dei Paesi coinvolti dal contagio stanno ulteriormente rallentando l’organizzazione della COP26. Mentre gli incontri ufficiali avranno luogo per due settimane il prossimo novembre, infatti, il frenetico round della diplomazia globale – unico vero artefice di un possibile accordo sul clima tra i Paesi che hanno sottoscritto la Convenzione delle Nazioni Unite – si è già messo in moto. Ma l’epidemia globale sta complicando tutto. Sia la Cina, il primo focolaio dell’epidemia, sia l’Italia, che vanta il triste primato di Paese con maggior numero di contagi in Europa, giocano un ruolo strategico in questo summit: il primo perché è la maggior fonte di emissione di gas serra al mondo, il secondo perché è il co-organizzatore ufficiale della conferenza e per questo, da tradizione, dovrebbe ospitare alcuni degli incontri prodromici al vertice. In questa fase, inoltre, di solito i funzionari e i politici della nazione ospitante dovrebbero convocare riunioni nei Paesi chiave e preparare la scaletta del summit. Entrambi due propositi a dir poco remoti per il Regno Unito, che al momento non ha nemmeno elaborato una strategia per il raggiungimento del proprio obiettivo nazionale – l’azzeramento delle emissioni entro il 2050. 

L’esito incerto di COP26: coronavirus o mancanza di volontà politica?

L’impianto fotovoltaico galleggiante di Huainan, in Cina, costituito da 166mila pannelli solari © Kevin Frayer/Getty Images

Ma con i mezzi di comunicazione attualmente disponibili e vista la gravità della situazione, siamo certi che un eventuale impatto negativo del coronavirus sull’esito della COP26 abbia davvero a che fare con oggettive barriere tecniche e logistiche, e non sia piuttosto addebitabile a limiti politici imposti dai governi coinvolti? Diversi osservatori, infatti, fanno notare che la tecnologia è dalla parte della diplomazia e che le trattative e gli incontri potrebbero – e dovrebbero – comunque svolgersi da remoto. Se la conferenza dovesse andare male, insomma, non sarebbe per colpa del Covid_19, ma per la mancanza di volontà politica tanto di chi la organizza quanto di chi vi partecipa. E non tutta la responsabilità, effettivamente, può essere addossata al Regno Unito. Il summit di novembre, infatti, ruota tutto attorno alla capacità di persuadere gli stati ad alzare l’asticella, a porsi traguardi più ambiziosi – dall’abbattimento delle emissioni alla totale decarbonizzazione delle abitazioni, dal disinvestimento dai combustibili fossili all’adozione di misure per far fronte alla deforestazione. Un obiettivo al cui raggiungimento devono necessariamente contribuire tutti, visto il momento cruciale in cui ci troviamo. Con gli Stati Uniti di Trump fuori dai giochi, il vero intento di Glasgow dev’essere dunque un solido accordo con l’Unione Europea – che è responsabile del 10% delle emissioni globali – e la Cina. Qualora si fallisse e non si riuscisse a lavorare coralmente, la responsabilità non sarebbe certo del coronavirus, che può facilmente essere aggirato grazie alla tecnologia, ma dei governi dei Paesi coinvolti.

Che fare, dunque?

Ci sono milioni di cittadini che hanno a cuore questi temi, nel Regno Unito come in Europa. Movimenti come Extinction Rebellion e Fridays for Future hanno cambiato radicalmente i termini del dibattito nell’ultimo anno: è in momenti come questi che bisogna far sentire la pressione dell’opinione pubblica sulla politica con una grande mobilitazione – fisica o virtuale – per il cambiamento climatico. Qual è il punto di grandi mobilitazioni di massa se poi le grandi potenze mondiali non riescono a mettersi d’accordo? La risposta è che non ci sono alternative. L’unica strada percorribile per il cambiamento su questi temi è mostrare ai governi dei nostri Paesi che c’è una grande coalizione politica internazionale che dà enorme peso a questi temi e che questa volta non è possibile far finta di nulla, virus o non virus.

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