«Il governo è vicino alle imprese. Nessuno deve sentirsi abbandonato». Sono le parole che il premier Giuseppe Conte ha pronunciato al termine del consiglio dei ministri di oggi, 16 marzo, durante il quale è stato approvato il decreto “Cura Italia”: una pacchetto per sanare, con 25 miliardi di euro, i danni provocati dalla pandemia da Coronavirus. Ma tra i settori più difficili da guarire c’è quello delle costruzioni, che dal duro colpo della crisi del 2008 ha faticato non poco a rimettersi in sesto.
Nell’ultimo decennio, il settore ha pagato un tributo altissimo alla crisi, con la scomparsa complessiva di 600mila posti di lavoro. Proprio a dicembre dello scorso anno, il ministro per lo Sviluppo economico Stefano Patuanelli aveva convocato un tavolo dell’Edilizia per studiare un piano di ripartenza. Ora, in questo caos generale provocato dallo tsunami Covid-19, né le imprese né i lavoratori del settore sembrano riuscire a trovare una quadra per rimanere a galla. Con il passare dei giorni, anzi, le difficoltà si accatastano le une sulle altre.
Su tutte c’è l’impossibilità di garantire le distanze di sicurezza e i dispositivi igienici per i dipendenti sul luogo di lavoro – condizione che ha spinto una cospicua quantità di aziende a chiudere i battenti senza alcuna certezza sui sussidi. I cantieri, oltre a soffrire per la carenza di materiale derivante dalla chiusura delle fabbriche, non possono né continuare a essere operativi servendosi dello smart working (ça va sans dire), né garantire che i dipendenti mettano in pratica i comportamenti idonei per limitare i contagi.
Open ha raggiunto al telefono Gabriele Buia, presidente dell’associazione nazionale costruttori edili (Ance), che ha scritto una lettera aperta alle istituzioni per chiedere che vengano varate normative ad hoc per il settore. Secondo Buia, sono «troppe le specificità del settore edile» che «non possono trovare accoglimento in altri settori merceologici».
Dottor Buia, cosa succede al settore delle costruzioni?
«I cantieri stanno via via chiudendo. Dopo 12 anni di decrescita, il settore delle costruzioni sta vivendo un ulteriore periodo di sofferenza. Le nostre condizioni di lavoro non ci consentono di mettere in sicurezza i nostri dipendenti, dato che nell’edilizia non è sempre possibile stare a un metro di distanza. Non possiamo pensare di mettere a rischio la salute delle persone».
Quali sono le problematiche più evidenti?
«Oltre alla distanza di sicurezza che non riusciamo a garantire, c’è anche il fatto che non possiamo reperire materiali come mascherine o guanti, perché sono limitati e sono destinati – come giusto – al personale sanitario. Poi, a causa della chiusura delle fabbriche, non riceviamo più i materiali indispensabili per le costruzioni. Per non parlare del fatto che i subappaltatori non vengono più nei cantieri. Insomma, se per il settore manifatturiero classico si stanno trovando delle soluzioni, le indicazioni del governo non tengono assolutamente conto delle particolarità del nostro settore industriale».
Se i cantieri chiudono, quali certezze ci sono per i lavoratori?
«Non avendo direttive dal governo, al momento ogni impresa sta gestendo l’emergenza da sola. Molte delle aziende che chiudono non hanno la certezza di riaprire, il che significa che molte persone perderanno il posto. Al momento si sta cercando di tamponare la perdita ricorrendo alle ferie e ai permessi. Se, come preannunciato, arriveranno degli ammortizzatori sociali – come la cassa integrazione – allora sarà più facile alleggerire l’onere a carico dei lavoratori».
In quanto imprese, quali sono le vostre richieste?
«Noi chiediamo norme dedicate. Abbiamo chiesto in primis la causa di forza maggiore che motivi le chiusure delle aziende, così da poter giustificare lo stop dell’attività. Poi ritengo che sia indispensabile che vengano messe in atto misure a sostegno della nostra carenza di liquidità, garantendo alle imprese una moratoria effettiva e automatica dei debiti maturati dalla pubblica amministrazione. E poi, senza dubbio, l’ampliamento del raggio di azione della sezione edilizia del Fondo di garanzia Pmi (piccole e medie imprese), bloccata da troppo tempo».
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Foto copertina: Ricardo Gomez Angel su Unsplash