Come cambierà il nostro rapporto con l’ambiente? «Abbiamo solo premuto il tasto “pausa”» – L’intervista

Capiremo l’urgenza di un radicale cambio di rotta o torneremo alla vita di sempre? Ne abbiamo parlato con Giorgio Vacchiano, ricercatore e docente in gestione e pianificazione forestale all’Università Statale di Milano

Il 2020 rappresenta un punto di svolta storico e il Coronavirus, la prima pandemia esplosa nel mondo globalizzato per come lo conosciamo oggi, segna un prima e un dopo. Lo shock causato da Covid-19 viaggia su più livelli. C’è quello economico, con una crisi simmetrica ed esogena che coinvolge tutti, quello sociale, perché come ogni situazione estrema anche questa sta facendo emergere le zone d’ombra delle nostre società, e quello ambientale. Non è con leggerezza che l’Onu l’ha definita la crisi sanitaria peggiore dei suoi 75 anni di vita. Il virus non conosce confini e passa di continente in continente mostrandoci l’altra faccia della medaglia del nostro mondo iperconnesso. Oltre a ricordarci che siamo tutti sulla stessa barca, evidenzia quanto è stretto il rapporto di interdipendenza tra noi e la natura, su cui si ripercuotono gli effetti di ogni nostra azione.


Lo stiamo vedendo in queste settimane con l’abbassamento dei livelli di inquinamento dell’aria per via del calo delle emissioni o con la fauna selvatica che si spinge fin dentro le città deserte. Ma lo vediamo anche guardando all’origine di questa pandemia: secondo gli esperti, il “salto” del virus dagli animali all’uomo è causato proprio da noi, che modifichiamo il loro habitat naturale e li spingiamo sempre più a contatto con la specie umana. Tra chi pronostica che questa crisi sia un’anticipazione di quella climatica e chi ne approfitta per chiedere deregolamentazioni sul fronte della tutela ambientale, sono in molti a domandarsi come cambierà il nostro rapporto con la natura una volta debellato il virus. Capiremo finalmente l’urgenza di una radicale inversione di rotta o torneremo alla vita di sempre? Ne abbiamo parlato con Giorgio Vacchiano, ricercatore e docente in gestione e pianificazione forestale all’Università Statale di Milano.


La risposta dell’ambiente alla nostra quarantena sembra essere buona, dagli animali avvistati in diverse città al calo delle emissioni. Sono effetti temporanei o ci saranno reali benefici a lungo termine?

«L’unico beneficio a lungo termine è averci mostrato un mondo che può essere diverso, ma finisce qui. Se da una parte la soluzione ai problemi ambientali non può essere metterci tutti in quarantena, dall’altra c’è il pericolo di un “effetto rimbalzo”, di un allentamento delle salvaguardie ambientali. Alcuni politici italiani stanno spingendo proprio in questa direzione, chiedendo condoni edilizi oppure sollecitando l’Unione europea ad abbandonare il progetto del Green New Deal per dedicare più risorse all’economia in crisi. Questa quarantena non ha portato a nessun cambiamento sistematico e strutturale, abbiamo solo premuto il tasto “pausa” e quando il sistema economico ripartirà, torneranno tutti gli effetti negativi. Finché la nostra economia continua a essere basata sul fossile, non solo non ci saranno benefici permanenti, ma quelli temporanei evaporeranno in poco tempo».

Quali delle risposte a quest’emergenza ha senso mantenere? 

«Il telelavoro dal punto di vista ambientale ha del potenziale, è stato dimostrato. Al netto dei primi giorni, poi, stiamo mostrando che quando serve sappiamo agire come comunità – anche in modo solidale, viste le numerose iniziative nate anche dal basso. È un segnale molto incoraggiante».

Abbiamo spesso sentito ripetere che l’inquinamento atmosferico può aumentare la letalità o la diffusione del Coronavirus. È vero? 

«La scienza deve procedere con passi molto chiari per potere giungere a delle conclusioni credibili, robuste e accettabili. I meccanismi ipotizzati in queste settimane sono due. Il primo, che credo possa trovare una conferma in ricerche future, è che l’esposizione cronica all’inquinamento renda più vulnerabile il sistema respiratorio: andrà dimostrato con studi epidemiologici sul Covid-19, ma che il sistema respiratorio sia vulnerabile all’inquinamento è già un fatto assodato. La seconda ipotesi, ben più ardita, è uscita da un report della SIMA e suggerisce che il particolato possa fare da vettore al virus. Ho letto il rapporto e non mi è sembrato che si rispettassero i canoni di una ricerca scientifica ben fatta, sia nel metodo – non è stata sottoposta alla revisione di altri scienziati – sia nel merito delle analisi, che potevano prestarsi a interpretazioni diverse. Ho visto dei contro-report, come quello della IAS, ma è un dibattito che non è avvenuto attraverso gli strumenti generalmente adoperati dagli scienziati. È sempre possibile formulare delle ipotesi, ma poi vanno verificate e per farlo occorrono tempo e metodo».

Questa settimana è stata presa la decisione più temuta dagli attivisti: la COP26, che doveva tenersi questo novembre a Glasgow, è stata rimandata al 2021 a causa del Coronavirus. Cosa comporta questo rinvio?

«Per risponderle mi rifaccio alla COP25, descritta da molti come l’ennesimo fallimento perché non si è trovato l’accordo su alcuni punti specifici in attuazione dell’accordo i Parigi – in particolare il famigerato art. 6 sulle transazioni dei crediti di carbonio. In realtà è stato molto meglio interrompere e rinviare le negoziazioni piuttosto che arrivare a tutti i costi ad un cattivo accordo, che avrebbe segnato il fallimento della mitigazione climatica per molti anni. In altre parole, abbiamo guadagnato un po’ di tempo. Rimandare il summit al 2021, poi, vuol dire farlo dopo le elezioni americane, scelta che non credo sia casuale e che nasconde, forse, la segreta speranza che con un cambio di amministrazione gli Stati Uniti possano modificare il corso degli eventi rispetto alla loro uscita dagli accordi di Parigi voluta da Donald Trump. Non la vedo così male, insomma».

Come cambierà il nostro mondo dopo quest’emergenza, e come sarebbe auspicabile che cambiasse? 

«Ora abbiamo tutti potuto constatare in modo evidente, in italia come all’estero, che la soluzione a problemi di questo genere deve per forza passare da un insieme di comportamenti individuali e regole collettive. Spesso la questione viene affrontata come un’alternativa tra misure dal basso o regole imposte dall’alto mentre l’unica strada è un insieme delle due, per l’epidemia come per i cambiamenti climatici, e auspico che questa constatazione ponga fine ad un dibattito sterile. Sono meno ottimista su quali saranno i cambiamenti effettivi, invece.

C’è una grande differenza tra la percezione della minaccia del virus e quella del cambiamento climatico. La prima l’abbiamo già sperimentata, è scritta nel nostro DNA come la paura dei serpenti e per questo ci sembra immediata. La seconda no, un po’ perché non si è mai realizzata in passato e un po’ perché non ci tocca direttamente – almeno a noi occidentali. Forse diventerà più forte la voce di chi dice che uomo e natura sono profondamente interconnessi, ma non so se l’opinione pubblica capirà che il problema più grande è la combustione di petrolio e carbone. Credo che sarà ancora necessario lottare per avere soluzioni sistematiche e strutturali».

Cosa dovremmo tenere a mente una volta rientrata l’emergenza?

«Improvvisamente abbiamo capito quanto è importante la scienza. Aspettiamo tutti il bollettino delle 18 e chiediamo ai virologi cosa dobbiamo fare e quando ne usciremo. Buffo vedere come quando ci sentiamo davvero minacciati si plachi improvvisamente la voce di chi mette di continuo in dubbio la scienza e i ricercatori. Dobbiamo ricordarci, come Paese, che gli investimenti in ricerca e sviluppo in campo scientifico sono strategici. Un’altra speranza è che ci sia una svolta nella lotta contro le fake news in campo scientifico, perché a quel punto sarà chiaro che non c’è differenza tra notizie false sul coronavirus e notizie false sul cambiamento climatico, che invece trovano ancora spazio su media e piattaforme social».

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