Coronavirus, la poetessa iraniana perseguitata: «Dopo 10 anni in carcere questa quarantena per me ha un significato diverso»

Una reclusione durata dieci anni. La poetessa e psicologa bahá’í Mahvash Sabet è uscita dalla prigione di Evin a settembre del 2017 e ora racconta l’esperienza di un nuovo isolamento

Ci sono prigioni da cui si esce con ferite profonde che, oltre a lasciare segni visibili sul nostro corpo, lasciano cicatrici profonde nell’animo e nello spirito. In Iran non esiste forse nome più evocativo di quello di Evin, la prigione diventata simbolo delle torture del governo iraniano verso dissidenti politici, giornalisti, pensatori o semplici cittadini. Tra loro ci sono i membri della fede Bahá’í, la più numerosa minoranza religiosa del Paese, che da quasi due secoli subiscono forme di discriminazione e di persecuzione di ogni genere a causa del loro credo considerato eretico da Teheran.


Per Mahvash Sabet, poetessa e psicologa bahá’í iraniana, i giorni ad Evin sono diventati mesi e poi anni, dieci, passati in una cella di isolamento quando nel marzo del 2008, insieme ad altri sei membri della comunità bahá’í, conosciuti come gli yaran-i-Iran, gli amici dell’Iran, è stata arrestata. E in questi giorni di pandemia, una pandemia che ha colpito con forza anche l’Iran, che conta 90mila e contagi e quasi 6mila vittima da Coronavirus, la poetessa Sabet, tre anni dopo essere stata rilasciata, si è interrogata sul significato della nostra esperienza di vivere rinchiusi in quarantena a causa della diffusione del virus.


«Sono uscita dalla prigione di Evin dopo 10 anni, il 17 settembre 2017. Ero stata arrestata e condannata a vent’anni di prigionia perché facevo parte del corpo dei dirigenti della Comunità Bahá’í iraniana», racconta a Open la signora Sabet dalla sua casa di Teheran.

Stiamo vedendo il mondo alle prese con una pandemia e una quarantena che sta coinvolgendo miliardi di persone sulla terra. Davanti alla sua esperienza dell’isolamento forzato, che riflessioni ha sul lockdown mondiale?

«In questi giorni di pandemia in cui tutti sono costretti a restare a casa è facile cogliere la preziosa occasione di riflettere su aspetti della vita che spesso cerchiamo di lasciare nelle profondità nascoste della mente. Pensieri ai quali prima non permettevamo di salire alla superficie e ogni volta che spuntavano timidamente venivano subito ricacciati nell’oblio. Ora abbiamo tempo per pensare al passato, abbiamo tempo per cercare un numero di telefono scordato in fondo alla rubrica oppure per rispondere alle chiamate di numeri da tempo dimenticati. Mi è capitato di ricevere la piacevole e inattesa chiamata di una cara compagna di prigione della quale avevo perso le tracce. Mi ha cercato dall’altra parte del mondo una vecchia collega di tempi lontani. Una volta credevo che il mondo fosse molto grande e che i popoli fossero lontani e diversi tra loro. Nessuna esperienza in comune avvicinava le loro differenti realtà, né c’erano le basi per progettare insieme o per avviare un dialogo costruttivo. Non avevano sperimentato insieme le stesse angosce né le stesse gioie. Ora, invece, il mondo non mi sembra più tanto grande e inaccessibile come in passato e sento i popoli collegati fra loro da solide fibre trasparenti. Ora il continuo e interminabile flusso delle comunicazioni a tutti i livelli, la rapida fioritura di interazioni e relazioni fra Paesi, per affrontare un’apparentemente piccolissima pericolosa creatura che è stata chiamata Covid19, mettono in evidenza la fragilità dei confini prestabiliti e danno un ampio significato alla frase “La Terra è un solo paese e l’umanità i suoi cittadini”.

Sono molti i contributi e gli articoli i cui autori condividono le loro riflessioni su questo strano indesiderato ospite. Ho trovato che molti di loro accostano l’obbligo di restare a casa in questi giorni alla vita trascorsa in una cella di isolamento. Ho ricevuto affettuose espressioni in cui mi dicevano di capire solo ora quanto doveva essere stata dura l’esperienza del carcere per una persona come me».

Si è accostata molte volte l’esperienza di questo lockdown globale all’isolamento carcerario.

«Mi sono chiesta se davvero questo particolare periodo della nostra vita assomigli ai giorni vissuti in carcere e in una cella d’isolamento. Se è veramente così, e molti ne sono convinti, perché io non ho la stessa sensazione? Perché sono così serena? Perché non mi assalgono profondi e laceranti dolori? Se questi giorni fossero uguali ai giorni del mio isolamento, perché non mi sveglio di notte con il corpo che brucia, madido di sudore freddo, per avvolgermi nella mia sottile coperta consunta, con le ginocchia strette al petto, tremante di freddo fino al mattino? Perché non attendo tutta la notte il canto degli uccelli ad annunciare il giorno e a invitarmi a sussurrare dal profondo dell’anima una preghiera? Perché non ringrazio il Signore per aver superato un’altra notte e, nello stesso tempo, non mi invadono il terrore e l’angoscia dell’interminabile giornata che mi aspetta? Se davvero questi giorni assomigliano a quelli trascorsi in una cella di isolamento, perché riesco a finire il mio pasto, perché nonostante la presenza e la terribile diffusione di questo virus letale che minaccia i miei polmoni già indeboliti e la vita dei miei cari e la salute della gente, non tremo di paura per tutta la notte? Perché pur rispettando scrupolosamente le raccomandazioni medico-sanitarie, non mi capita di dormire e di sperare di non svegliarmi mai più, pensando alla morte come l’unica salvezza? Davvero la gente vive in prigione? E se non è così, perché ne ha la sensazione?».

Che cosa ricorda del suo tempo in isolamento?

«Non riesco liberarmi dai ricordi che mi assalgono, sento riaffiorare in me le stesse percezioni di quei giorni e mi domando: qual è l’effetto dell’aver vissuto in una cella di isolamento che entra nelle cellule di un essere umano e ci resta definitivamente? Penso a una donna felice e fiduciosa, amata e rispettata in casa e in società, sommersa dagli impegni e dal lavoro che una mattina presto si sveglia, si fa la doccia, si veste e si prepara, si mette il profumo, sorride contenta allo specchio e fa un profondo respiro prima di uscire di casa. Sa di avere una giornata intensa, un breve viaggio in aereo la mattina e il rientro in tarda sera a casa. Ma quella sera non ritorna e non ritornerà per altre tremila sere».

Dieci anni in isolamento come possono cambiare una persona?

«La cella di isolamento è un altro mondo. Lì nulla assomiglia a ciò che conosciamo e che esiste all’esterno. E proprio questo è il primo colpo. Il primo colpo alle abitudini, all’immagine di sé e all’idea che ognuno ha di se stesso. In questa condizione, l’immagine di sé è il primo elemento che si deforma. Qui non esiste la fiducia. Qui è terra di accuse e di difese, di interrogatori e di sospetti che suscitano paura, ansia, inquietudine. L’accusa di colpevolezza genera fragilità psicologica e le scelte razionali tra resistere e lottare o arrendersi e salvarsi provocano uno stato confusionale. Il primo impatto è un totale disorientamento. La benda agli occhi origina insicurezza e terrore. Non siamo abituati a non vedere, a non voltare la testa verso i suoni che sentiamo, a percepire i rumori senza una corrispondente immagine. Non siamo abituati agli insulti, alle minacce violente… chiniamo la testa e attendiamo. È il primo livello di un cedimento, il primo passo verso la rinuncia a resistere?  

Le persone hanno reazioni differenti, ma spesso durante la reclusione in una cella di isolamento chi vi è rinchiuso vive in uno stato di ansia e di profonda agitazione. Alcuni perdono completamente l’appetito e il sonno, altri sono colti da forti cefalee e dalla nausea. Nei casi più difficili la prigioniera cade in uno stato di tensione spasmodica oppure incomincia urlare e strapparsi i vestiti di dosso e, potendolo, tende a infliggersi ferite mortali. Altri reagiscono all’impatto delle iniziali minacce con maggior coraggio e forza. Le differenze di carattere, di ideologia, di educazione e di cultura eccetera sono le principali cause delle diversità delle reazioni in un contesto pressoché simile.

Chi si trova in prigione non sa nulla dell’ambiente che lo circonda o delle persone che sono probabilmente presenti attorno a lui. L’ignoto è terrorizzante e toglie il respiro. Vengono in mente spaventose immagini stereotipate, la prima ispezione del corpo è offensiva e irritante, fa sudare freddo, è come la lama di un sottile pugnale che penetra nel cuore. Ma bisogna resistere, bisognare lottare… io resisterò. Di fronte alle violenze e ai soprusi nasce un senso di resilienza, un moto interiore di difesa, che permette di non cadere nella voragine di quel pericolo e di tollerare in qualche modo la nuova situazione».

Lei è anche una psicologa. Adattarsi a questa situazione non è facile. Qual è secondo lei la cosa più difficile che stiamo sperimentando?

«Ora confesso di capire il confronto e la rassomiglianza. Credo di capire perché molti considerano queste settimane di quarantena casalinga una forma di prigionia, anche se spero che mai, in nessuna parte del mondo e per nessuna ragione, nessuno sia costretto a vivere l’esperienza della cella di isolamento. Modificare comportamenti e abitudini che finiscono per trasformare la nostra “immagine di sé” non è affatto una cosa semplice. Tutti siamo stati seriamente minacciati e naturalmente, prima o poi, abbiamo dovuto attraversare le alterne fasi del “rifiuto” e dell’ “accettazione”.  

Prima che arrivasse il Covid-19 avevamo programmi di vita specifici e regolari, modelli comportamentali ben precisi. Tutto scorreva in bell’ordine, sui binari del tempo, le nostre giornate di lavoro, le relazioni familiari, gli interessi personali, le attività sportive o culturali, i giochi e gli svaghi e molte altre cose. Complessivamente avevamo un’immagine ben definita di noi stessi, un’immagine legata ai valori e all’autostima prodotta dal nostro “io ideale”.

Ora siamo condannati a restare confinati in casa, una condizione che non abbiamo mai sperimentato. Alla difficile impresa di cambiare le abitudini si sommano pensieri contraddittori e confusi, percezioni  di pericolo e di minaccia. Il timore ansiogeno di perdere e di perdersi, paure, angosce, nostalgie, la preoccupante situazione del lavoro, la soffocante assenza di relazioni sociali, la lontananza dalla natura e dalle sue bellezze e, infine, la costante presenza di Social media e di ciò che esso inietta nel corpo esausto e martoriato della nostra società. Tutto sembra assomigliare all’esperienza del carcere».

Ha superato molte difficoltà. Cosa pensa possiamo tutti imparare da questa situazione?

«Quando si è costretti a combattere contro le proprie paure, comprendere l’altro diventa difficilissimo.  Restare rinchiusi in casa ci permette di allentare la tensione interiore e invita alla calma e alla pazienza di fronte ad eventuali situazioni sconosciute e inesplorate. Infine, ciascuno di noi, secondo il livello di tolleranza che ha acquisito, riesce ad arrestare la propria battaglia interiore. I meccanismi psicologici di difesa, la vigorosa e positiva immagine di un ‘io forte’ ci convincono che non è utile soffermarsi sui danni di questo sconvolgimento. Rammaricarsi e affliggersi non ci restituirà la serenità e il benessere. A poco a poco, la dissonanza tra ‘l’io ideale’ e ‘l’io reale’ si placa. Tentiamo di raccogliere le forze per incominciare a utilizzare le grandi opportunità che i nuovi e potenti mezzi di comunicazione ci offrono. Il tempo che scorre nella continuità della nostra “reclusione domestica” ci porterà inevitabilmente, in una dimensione globale, verso la quiete e il benessere».

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