Caso Fca Italy, ecco perché l’azienda non paga l’Irap da dieci anni. E perché è necessario render pubblici i «country by country reports»

L’azienda risulta titolare in Italia di un cospicuo credito di imposta. Secondo gli economisti Faccio e Saraceno, però, potrebbe servire maggiore trasparenza

Il primo sì al prestito da 6,6 miliardi di euro chiesto da Fca a Intesa San Paolo, con garanzia della Sace è arrivato ieri: il passo iniziale di una iniziativa economica molto dibattuta, perché l’azienda che controlla la principale casa automobilistica del Paese e parte della galassia a cui appartiene il gruppo editoriale Gedi avrà una consistente garanzia sulle prossime spese, sebbene a inizio 2021 abbia già messo in agenda la fusione con Peugeot, con tanto di dividendo già fissato e passaggio del controllo a Parigi sugli investimenti automobilistici. Mentre la polemica politica nazionale sembra aver spostato il suo fuoco altrove, il dibattito non si ferma soprattutto dove l’azienda ha maggiori interessi.


Il 25 maggio il consigliere regionale di Leu e Verdi in Piemonte, Marco Grimaldi, al question time regionale, ha posto il tema dell’Irap, la tassa regionale che tutte le imprese grandi e piccole pagano e che serve a pagare il sistema sanitario nazionale, gestito dalle Regioni. A quel che ha risposto l’assessore regionale al bilancio Andrea Tronzano, Fca non paga l’Irap in Piemonte e non la paga in nessuna regione in cui abbia sede: «Risulta che dal 2011 ad oggi, ultima dichiarazione anno 2018, il gruppo Fca non ha versato Irap su tutto il territorio nazionale in quanto risulta a credito di circa 12 milioni di euro», ha spiegato l’assessore.


Open ha potuto visionare le dichiarazioni dei redditi ed è effettivamente così. Controllando alla voce imposte, non ci si mette molto a capire che Fca non paga l’imposta sulle attività produttive dal tempo della fusione tra Fiat e Chrysler. Ha una imposta a credito che ha maturato prima della riorganizzazione societaria del 2010 a cui si sono sommati i valori di produzione negativi per il 2011, 2012 e 2013. Anche negli anni successivi la situazione è rimasta immutata. Dalle verifiche sui documenti, al momento l’imposta a credito è di 12.867.473 euro, ma dieci anni fa era di 38.900.385 euro.

«Chi difende il diritto di Fca di chiedere garanzie sul credito, almeno abbia il coraggio di pretendere come noi che il gruppo renda pubblico e consultabile il suo bilancio consolidato», commenta Grimaldi dopo il question time: «Dico di più. È tempo di rivedere la struttura di una tassa che rischiano di pagare solo i piccoli. Dovrebbe far riflettere che Fca si conferma un colosso dei profitti, ma se si guarda alla voce Irap somiglia a un indigente».

Cos’è il profit shifting

Di per sé, almeno dal punto di vista fiscale, il mancato pagamento dell’Irap può non essere uno scandalo: tutte le aziende che sono in perdita o hanno un’imposta a credito possono scaricarla sulla pesante tassa regionale e non pagarla. Come ci viene spiegato informalmente da Fca, l’azienda ha chiuso il bilancio italiano in perdita, senza profitti, da anni. È accaduto a Fca ma sarebbe successo a qualunque altra azienda in passivo, grande o piccola, ribadiscono.

ANSA/ ALESSANDRO DI MARCO | Lo stabilimento di Mirafiori il giorno della riapertura, il 27 aprile 2020

Secondo alcuni economisti internazionali, però, è possibile anche che l’azienda abbia seguito una prassi – assolutamente legale – particolarmente diffusa nelle multinazionali, il profit shifting. Come spiega a Open l’economista Francesco Saraceno, senior economist alla Sciences Po di Parigi: «Il profit shifting è una prassi diffusa per tutte le multinazionali e non è illegale. L’unico tema su cui si può intervenire, e parlo in generale non in particolare di Fca, è chiedere alle aziende che ricevono finanziamenti pubblici di pubblicare i loro country by country reports. La pubblica opinione saprebbe se stanno contribuendo ad un’azienda che è complessivamente in attivo».

Tommaso Faccio, membro della commissione indipendente Icrict per la riforma della tassazione delle multinazionali, che nel board economisti del calibro di Joseph Stiglitz e Thomas Piketty, ha spiegato a Internazionale come funziona: «I profit shifting sono i trasferimenti di fondi infragruppo», dice Faccio. «Per esempio, il ramo finanziario lussemburghese di un’azienda può fare un prestito a quello brasiliano, e in questo modo, quando il prestito viene restituito con gli interessi, i profitti emergono in Lussemburgo, dove non sono tassati: a quel punto se la casa madre è a Londra, c’è una tassazione secca del 5 per cento, regime molto favorevole rispetto ad altri paesi, compresa l’Italia».

Contattato da Open, Faccio aggiunge che dai bilanci che Fca deposita pubblicamente e mette a disposizione anche sul proprio sito, non è facile capire se ci siano stati spostamenti di capitale tra una sede e l’altra: «Dal bilancio consolidato non si può quantificare l’ammontare di profit shifting e non sempre è possibile identificare  se c’è un rischio di profit shifting, appunto, poiché in consolidato le transazioni intra-gruppo vengono cancellate». 

Informalmente, Fca spiega che non c’è stata alcuna pratica di profit shifting tra il ramo italiano e la controllante. E ribadisce che l’unica spiegazione sono le perdite.

Tutto risolto? Secondo Faccio e Saraceno il problema potrebbe essere risolto con l’obbligo di pubblicazione dei country by country reports. Carlo Calenda, ma anche Corrado Augias e persino Francesco Giavazzi sul Corriere della Sera parlano di maggior controllo pubblico, Giavazzi si è spinto a citare l’ingresso dello Stato nel capitale come azionista, come strumento per controllare non solo come si muovono i profitti ma dove vengono indirizzate le strategie di investimento. Insomma, il dibattito è tutt’altro che chiuso.

Leggi anche: