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Ilaria Capua: «Sono una sopravvissuta. Ho una road map per allontanarmi dai media» – L’intervista

09 Giugno 2020 - 07:22 Serena Danna
La scienziata, tra i massimi esperti di virologia, ha scritto un libro sul futuro che ci aspetta dopo il Coronavirus. E qui parla della sua seconda vita "da ex-virologa"

Non è semplice scrivere un libro sul dopo Coronavirus quando non è ancora chiaro se e quando ci sarà un dopo. La scienziata Ilaria Capua, 30 anni passati a studiare i virus, lo ha fatto senza remore perché sa che nelle tragedie il domani si identifica necessariamente con la convivenza. È successo anche lei. Dopo gli onori legati alla ricerca sull’influenza aviaria e al contributo alla scienza open source – è stata la prima donna a vincere il Penn Vet World Leadership in Animal Health Award, il più importante premio per la medicina veterinaria – è stata accusata di aver diffuso ceppi di influenza aviaria per guadagnare dalla vendita dei vaccini.

Nel 2016 è stata prosciolta dalle accuse perché il fatto non sussiste. A distanza di sei anni da quelle accuse, la ferita è diventata una consuetudine nella sua vita. Ne Il dopo, appena uscito per Mondadori, Capua non fa previsioni, offre una mappa mentale per il complicato futuro che ci aspetta. «Attraverso il libro volevo fare sanità pubblica – dice dalla sua casa a Gainesville, dove dirige il One Health Center of Excellence dell’Università della Florida -. Mi piace vederla come un’opera di educazione sanitaria, di avvicinamento alle grandi tematiche scientifiche che oggi più che mai sono al centro del dibattito».  

Il libro è volato subito ai primi posti dei più venduti in Italia. Se lo aspettava?

«Non è stato facile per me riemergere e diventare uno dei punti di riferimento su questo argomento. Avevo fatto pace con il fatto che i virus avrebbero riguardato solo una parte della mia vita, una stagione che considero chiusa. E invece questo virus è arrivato e si è ripreso uno spazio».   

Vuole essere chiamata ex virologa.

«In microscopio non ci guardo più. Quando sono arrivata in Florida volevano offrirmi un laboratorio di virologia ma non l’ho voluto. In Italia avevo un laboratorio di settanta persone che lavorava come un orologio svizzero ed è diventato il centro di riferimento europeo per l’influenza aviaria. Ricominciare daccapo e arrivare a quei livelli sarebbe stato troppo difficile: sarei entrata in competizione con me stessa. Dopo la mia esperienza giudiziaria e parlamentare (è stata deputata di Scelta Civica ndr), ho pensato di indirizzare la ricerca e la mia attenzione scientifica su un settore che mettesse insieme pezzi complessi riguardanti la salute pubblica e che non possono essere gestiti in maniera separata. Nonostante tutto sono stata una persona fortunata: ho vissuto tante esperienze che mi hanno arricchita».

Ha raggiunto risultati molto importanti nella sua carriera da virologa. 

«Quando mi sono iscritta alla facoltà di veterinaria avevo due priorità: fare ricerca scientifica e andare via di casa. Mi sono laureata sapendo che non avrei mai esercitato ed è stato così; ho dedicato la mia professione alla scienza. Oggi vediamo le conseguenze del lavoro che abbiamo fatto sulla trasparenza dei dati. Sono andata contro l’Oms per rendere pubbliche le sequenze virali del virus dell’aviaria. Grazie alla mia battaglia, abbiamo database condivisi che si sono rivelati fondamentali durante la pandemia». 

Come mai è tornata a occuparsi di virus?

«Ho capito che c’era troppa confusione. Sentivo persone dire cose completamente sbagliate, e ho avuto paura. L’esperienza “trafficante di virus” mi ha fatto capire la portata della devastazione delle fake news che, per colpa dei social network, hanno un potere di penetrazione pazzesco. Possono influenzare l’andamento della malattia quanto le regole e i decreti».

Però in questo caso i social c’entrano poco. La confusione sulle informazioni legate al Coronavirus spesso è stata istituzionale e scientifica. 

«In America c’è una confusione ideologica: non ci sono, come in Italia, decine di persone che dicono tante cose diverse. Qui esiste la linea seguita da Trump, Fox news – dove la pandemia è l’ottava notizia in homepage –  e mondo repubblicano che punta a minimizzare perché deve ripartire l’economia e a breve ci sono le elezioni. E poi c’è la linea democratica, rappresentata dai fratelli Cuomo (Andrew, governatore dello Stato di New York e Chris, conduttore della Cnn ndr) che hanno un atteggiamento catastrofista. 

Il fatto è che entrambe le fazioni hanno ragione: nell’America rurale dei villaggi sperduti la malattia non si vede, mentre New York è un disastro. Finora non siamo stati in grado di mettere a fuoco il virus proprio per questa diversità così significativa dell’esperienza. Pensi all’Italia: Lombardia versus Puglia. Va cambiato l’approccio: il virus fa il virus e per ora non è cambiato. Quello che fa la differenza è l’ospite e certe condizioni che girano intorno all’ospite: inquinamento, mobilità, sovraffolamento nei mezzi pubblici, con la conseguente difficoltà di mantenere livelli igienici elevati nel sistema del trasporto pubblico». 

Come mai dopo la Sars non c’è stato un vaccino per i Coronavirus?

«Ci sono rischi contemplati e accettati, e altri – come il rischio pandemico – percepiti come distanti. Eppure nel secolo scorso abbiamo avuto quattro pandemie influenzali: queste cose succedono e bisognerebbe prepararsi per tempo. Invece non c’era alcun network di pre-preparazione.

C’è da dire che nessuno si aspettava una pandemia causata da un virus conosciuto…Gli altri Coronavirus non erano stati capaci di essere così trasmissibili, quindi ci aspettavamo una pandemia influenzale. Inoltre la ricerca, in Europa come in America,  funziona per programmi quadro, per cicli di finanziamento. La Sars è stata al centro di un solo ciclo di ricerca, e con 5 anni fai quello che puoi fare. L’influenza, al contrario, è dentro molti cicli di ricerca perché sai che ogni anno arriva…».

La mancanza di coordinamento nazionale e internazionale è notevole. 

«Se la metà di quelli che stanno lavorando sui vaccini facessero parte di un consorzio pre-esistente, tutto sarebbe più veloce e meno difficile. Anche perché per testare i vaccini devono esserci reagenti standard. E invece ognuno va per la sua strada.  

La stragrande maggioranza dei test non sono stati validati, sono stati lavorati in emergenza con procedure di campionamento diverso. Ora, una cosa è fare i tamponi  in un paesino su un cucuzzolo della montagna, altra è farla all’ospedale di Bergamo dove sono positivi anche i telefoni. La popolazione campionata è importantissima. In epidemiologia il denominatore deve essere comune altrimenti non si capisce nulla.  

E invece i numeri sono stati e continuano a essere completamente inaffidabili. C’è stata una folle corsa ai reagenti dalle aziende che producono enzimi: molti hanno grattato il fondo della pentola e mandato in giro chissà che cosa. I test fatti in emergenza sono molto rischiosi, per questo occorre averli prima».

Lancet e il England Journal of Medicine (NEJM) hanno dovuto ritirare gli studi su un farmaco contro il Covid-19.

«Ricordo che Lancet è la rivista del collegamento tra autismo e vaccinazioni…».

Ma forse il punto è la quantità di studi pubblicati sul Coronavirus senza le dovute verifiche e attese. 

«C’è un cronico sotto-finanziamento del mondo della ricerca, che in alcuni casi è diventata irragionevolmente e patologicamente competitiva invece che convergente. È arrivato il momento di capire che non si può usare questo sistema per gestire le pandemie. 

Tuttavia per arrivare a una ricerca di convergenza ci vorranno 20 anni perché la testa delle persone deve cambiare. Quando ai tempi dell’aviaria invocai la trasparenza dei dati e la condivisione su piattaforme open access mi diedero della matta: dicevano “non sa di cosa parla”. Ma sono gli stessi archivi dove oggi vanno  i genomi del Coronavirus.

La gestione della nostra salute va ripensata: la sanità, in particolare quella pubblica, sarà sostenibile nel tempo soltanto se noi cerchiamo di far diventare pazienti i pre-pazienti il più tardi possibile. È un lavoro erculeo, che richiede un grosso sforzo di ripensamento a cominciare dagli istituti di igiene e profilassi, che sono i posti più tristi di tutti gli ospedali: abbandonati, sotto-finanziati, trattati sempre come se potessimo farne a meno. Covid-19 ci ha dimostrato che le regole base della sanità pubblica bisogna rispettarle».

Che opinione ha dell’Oms e dei presunti ritardi della Cina?  

«Sono molti anni che non frequento l’Oms, da quando sono entrata in parlamento. Con Sars1 avevano sbagliato virus: all’inizio non credevano fosse un Coronavirus, poi hanno fatto marcia indietro. I cinesi sono una potenza scientifica, dei lavoratori incredibili. Io credo che stavolta abbiano voluto aspettare per non fare una figuraccia, perché avrebbero perso credibilità».

La sovraesposizione mediatica di alcuni scienziati fa male alla scienza? 

«Questo non lo so. Non so che guerre ci siano in Italia, tanti non li conosco neanche. Allora devo dire che avrei dovuto parlare meno anche io…».

Perché non l’ha fatto?

«È stata una chiamata. Mi sono detta: c’è bisogno che parli. Sono trenta anni che studio questi problemi. Sono stata la prima a mettere fuori l’hashatg #pandemicost per far capire che il Coronavirus non riguardava solo la Cina. Speravo che qualcuno mi ascoltasse e invece non mi ha filato nessuno. Ho detto a gennaio che le scuole dovevano attrezzarsi e che dovevamo puntare sul telelavoro. Ho sentito che c’era bisogno di una voce femminile e distaccata. Mi sono impegnata a non guardare le cose da dentro ma con una prospettiva esterna».

Quando sono ricominciati gli attacchi si è pentita?

«Gli attacchi fanno molto male, anche perché sono una persona ancora fragile. Tutte le volte che viene fuori la vicenda giudiziaria sento ancora dolore. Io sono una sopravvissuta. Lei ha letto Il danno?».

Il libro di Josephine Hart in cui c’è una donna che ha subito un danno  da cui fa fatica a riemergere. 

«Non voglio fare paragoni assurdi ma è come se fossi sopravvissuta a un incidente aereo. Quando ho realizzato che ero accusata di un reato punibile con l’ergastolo mi sono vista in carcere per trent’anni con le prostitute nigeriane. Le carceri italiane sono piene di povera gente, non ci sono le menti criminali…Oggi sono una convalescente».

Come reagisce quando la attaccano?

«Ho sviluppato la tecnica di lettura selettiva. Non blocco, ma silenzio tutti quelli che usano linguaggio volgare. Mi sono fatta una road map di progressiva de-escalation dai media. Ora ho il libro però».

Cosa vede nel suo dopo? 

«Vorrei transitare dall’essere uno dei punti di riferimento del Covid-19 a diventare un punto di riferimento per il dopo Covid-19. Quello che poteva dare al virus l’ho dato, in uno spazio temporale circoscritto, attraverso i media. Ho raccolto tutto in un libro. Adesso voglio parlare degli argomenti del libro. A volte è necessario che io appaia, anche perché quando appaio mi pare che i miei messaggi vengano recepiti…Ho cercato di usare questa finestra di visibilità per dare dei messaggi sulle cose che sappiamo, non sulle tante che non sappiamo. Perché un nemico lo combatti su quello che sai».

In copertina: Ilaria Capua (credito: Tania/Contrasto). Elaborazione grafica di Vincenzo Monaco

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