Perché la tifoseria dello smart working (e quella contraria) fa male al lavoro – L’intervento

Si fa strada l’ennesima contrapposizione poco sensata: il lavoro agile è compatibile con la ripresa della vita economica

Volete le fabbriche piene o i cieli puliti? Pensavamo fosse finito il tempo delle sciocche e facili semplificazioni di questioni economiche e sociali complesse, ma peccavamo di un eccesso di ottimismo.
Dopo l’intervento con cui il Sindaco di Milano Beppe Sala ha invitato i milanesi a tornare al lavoro anche per sostenere le attività commerciali di bar e ristoranti, c’è stata la levata di scudi di tanti esperti e non che hanno ritenuto ingiusto anteporre le esigenze economiche ai vantaggi derivanti dal ricorso al lavoro da casa. In questo modo, si è fatta strada una contrapposizione tra i cantori dello smart working (li chiameremo, con un pessimo neologismo, “smartisti”) e i sostenitori della necessità di far ripartire a tutti i costi le attività commerciali (li chiameremo, consapevoli anche qui della forzatura linguistica, “baristi”).



Gli “smartisti” sono ormai diventati un gruppo di opinione compatto e determinato, pronto a scomunicare sui social e sui mezzi di comunicazione chiunque metta in dubbio i dogmi del lavoro agile. Non tollerano opinioni diverse dal dogma assoluto del lavoro agile come forma di progresso del lavoro. Guai a ipotizzare che qualcuno possa approfittare di questa modalità di lavoro (come ha fatto Pietro Ichino riferendosi ai dipendenti pubblici), guai a mettere in dubbio che in qualche caso il lavoro remoto non garantisca un aumento della produttività: chi porta avanti queste idee rischia come minimo l’accusa di ignoranza e di arretratezza culturale.


Agli “smartisti” si fronteggia, con una carica di aggressività non inferiore, la nutrita schiera dei “baristi”, tutti quelli che non vogliono sentire discorsi sulla produttività del lavoro agile ma si concentrano sulla necessità di riportare le persone negli uffici per far riprendere il commercio.

Ciascuna di queste due parti afferma un pezzo di verità,  ma ognuna di loro lo fa con un eccesso di foga e finisce per cadere in errore.
Su temi di questa complessità non esiste una verità assoluta, e in ogni caso il dibattito è viziato da un errore di fondo: lo smart working, quello vero, non è la schiavitù del  lavoro casalingo che abbiamo sperimentato in questi mesi, ma è una cosa diversa. È una forma di alternanza tra ufficio e fuori ufficio (non per forza casa), un modo di lavorare per obiettivi che garantisce  flessibilità di tempo e di spazio.


Questa forma di lavoro – il vero lavoro agile – non rinchiude le persone dentro casa, come accaduto con il rozzo lavoro casalingo del lockdown, ma si svolge quasi sempre fuori dalle mura domestiche: in un parco pubblico, in uno spazio di co-working, in ufficio, dovunque, Il lavoro agile è anche mobilità e, come tale, è pienamente compatibile con l’esigenza sacrosanta di riempire i bar e i ristoranti. Non ci vuole molto a comprenderlo: basta ragionare senza slogan semplicistici.

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